OFFRIRE IL DOLORE A DIO
Caro Padre, che cosa significa: “offrire il dolore a Dio?”
Non sono poche le caratteristiche che rendono il cristianesimo unico tra tutte le religioni.
Pensiamo, tanto per dare qualche dato, al fatto che Dio si è fatto carne (verità eterna e straordinaria dalla quale derivano un’infinità di conseguenze: caritatevoli, liturgiche, spirituali, morali…), oppure al mistero della Trinità. O ancora al perdono come costituente fondante e necessario per ogni autentica sequela del Cristo.
E tra le varie “novità” introdotte dal cristianesimo, non vi è dubbio, un ruolo centrale c’è anche nell’essere stato in grado di dare un senso alla sofferenza.
Dare un senso alla sofferenza
Cristo, infatti, è Colui che ha fatto nuove tutte le cose (Ap 11,5): e tra le “cose” che appaiono in un alone di novità stravolgente c’è il dolore.
Dolore, sofferenza, malattia, si sa, sono in grado di destabilizzare il più forte degli uomini e, viste con il solo sguardo umano, non hanno nessun senso.
Nella sofferenza si arriva al punto di perdere di vista ogni certezza; ci si sente smarriti, persi, incapaci di procedere e travolti in quelli che sono desideri, aspirazioni e sognidi una vita.
Anche le vite più riuscite, nel momento della prova, si rivestono dei panni della tragedia spingendo, colui che soffre, a pensare di vivere veri e propri incubi che sembrano non lasciar spazio all’aurora.
Offrire il dolore è stare in pace con Dio
Eppure, nel buio più pesto della sofferenza, il cristiano – quello vero, capace di avere fede oltre ogni umana accettazione – riesce a stare in pace perché la mano di Dio è all’opera.
La sofferenza, di suo, ha il pregio di focalizzarci sull’essenziale: una persona che soffre – come colui che vive un dramma di qualsiasi tipo – è portata naturalmente a centrarsi sull’essenziale, mettendo da parte tutto quanto può essere superfluo.
In Cristo, quindi, la sofferenza ha un senso profondo.Per questo che si può offrire il dolore a Dio; che poi è quanto bisognerebbe fare – poveri coloro che mai lo hanno fatto – nel momento della celebrazione della Santa Messa.
Al momento dell’offertorio, sull’altare, dove da lì a poco si compirà il più grande dei miracoli, possiamo – anzi dobbiamo! – offrire la nostra sofferenza in modo da fonderla nel calice di Cristo.
«L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana»sono le parole che il sacerdote (o il diacono) pronuncia sottovoce nell’aggiungere qualche goccia d’acqua al vino già versato nel calice. Parole che andrebbero urlate più che sussurrate, a ricordare che in Lui anche quanto apparentemente e umanamente di più inutile ha senso, è capace di salvezza.
La sofferenza come redenzione
In questo modo la nostra – soltanto apparente inutile – sofferenza acquista il valore della redenzione, della salvezza.
Questo ci fa anche capire quanta inutilità hanno le processioni offertoriali con cui si porta all’altare di tutto e che, in fin dei conti, ottengono il solo risultato di una sterile distrazione nel momento in cui ci si dovrebbe unire nel calice di Cristo.
Beati coloro che sono capaci di vivere con piena partecipazione il momento della santa Messa che introduce al cuore della celebrazione eucaristica: quante grazie, quanto amore, quanta Presenza!
Che ognuno sappia, nel raccoglimento personale, unirsi a quel mistero di offerta.
Perché la nostra offerta ha sempre senso solo se unita all’unica, eterna e santa offerta del Figlio, Cristo Signore, a Dio Padre.
Qualcuno potrebbe obiettare, al termine di questa risposta, che la domanda non puntava a parlare della Messa: ma il punto è proprio questo.
Per comprendere l’offerta della sofferenza a Dio è necessario sforzarsi di vivere, più che di capire, l’offerta del Cristo nel mistero eucaristico.
