Cesare è morto
Cesare non c’è più. Lo abbiamo appreso dai social ieri. Già da qualche tempo il bambino aveva intrapreso l’ultima parte del suo viaggio terreno. La fine era annunciata, ma tutti ci attaccavamo alle briciole di vita rimaste. Dire addio a qualcuno è un dolore immenso.
Non lo avevamo mai visto, Cesare, eppure lo conoscevamo. Meriti di sua madre, Valentina, che ha acceso la luce sulla sua storia, proprio mentre Cesare si addentrava nel buio della malattia. Una malattia rara, dai contorni misteriosi e implacabile.
La morte è sempre implacabile, misteriosa, piena di dolore, per chi va e per chi resta.
Il senso della vita
Da sempre, malgrado le innovazioni in campo medico, la morte continua a metterci alle corde. E, quando colpisce così insensatamente un innocente, impone riflessioni sul senso della vita. La morte di un bambino ci disarma, non riusciamo a trovare una spiegazione per un evento fuori dalle statistiche e dalle leggi della natura: come si può accettare che i genitori seppelliscano i propri bambini?
Ma forse il problema sta a monte: al significato che diamo alla vita e alla morte. Se ci aspettiamo la vita come una successione ordinata e progressiva di eventi: si nasce, si cresce, si trova un posto nel mondo, si mette su famiglia, si invecchia e si muore, allora la morte prematura è una scheggia impazzita nel meccanismo.
Se invece riconosciamo che la vita abbia un immenso e irriducibile valore, indipendentemente dal fatto che sia lunga, che ci porti a realizzare obiettivi e raggiungere traguardi, allora l’idea della morte di un bambino o di un giovane viene un poco mitigata.
Cesare e l’amore
Se il senso della vita è amare e lasciarsi amare, allora Cesare ha vissuto benissimo. La sua famiglia lo ha accompagnato con amore e dedizione, per tutto il suo tragitto terreno.
Grazie alla sua mamma, che ha raccontato un giorno alla volta la sua storia su social e libri, Cesare è stato amato da persone che non ha mai incontrato.
Lascia dietro di sé una traccia tangibile di tutto questo amore dato e ricevuto, senza condizioni e senza aspettative.
Se già l’amore per un figlio è gratuito e generoso, quello per un figlio ammalato lo è ancora di più.
Un figlio che soffre non può nutrire alcuna delle aspettative dei genitori. Nemmeno quella di saperlo un giorno sano, guarito, neanche quello di vederlo diventare adulto.
Amare qualcuno così, a fondo perduto, è la forma di amore più viscerale e profondo. Ma siamo mai davvero a fondo perduto?
Il meglio deve ancora venire
La morte è sempre stata una circostanza con cui è difficile confrontarsi. Per noi lo è anche di più. Siamo una società laica e scettica, affetta da fideismo per la scienza. Ci comportiamo come se la malattia fosse una battaglia e la morte una sconfitta. Per questo la fine ci fa paura.
Abbiamo smesso di credere che non sia tutto qui, tutto ora, che la morte non sia che l’inizio di un’esistenza in un’altra forma. In una forma più alta, libera finalmente da tutti i limiti terreni: la sofferenza, la disperazione e la malattia. Se con la morte finisce tutto, la disperazione è inevitabile.
Se con la morte inizia la vita, ecco che ci attende una speranza senza fine, non una fine senza speranza (frase splendida, lo so. Infatti mica è mia. È della scrittrice cristiana Barbara Johnson. Due figli morti poco più che adolescenti e la capacità di dare un senso spirituale a queste perdite).
Tutto questo mamma Valentina lo sa. E infatti, salutando Cesare, gli dice:
«Circondati dal nostro amore, grazie agli angeli del guscio, sei andato via da questa vita a cui tu hai dato tanto, senza chiedere niente. Ti ho fatto una promessa: non essere arrabbiata con questa vita. E ce la metterò tutta per far si che il mio cuore urli solo cose belle in tuo nome. Tu ora vai, finalmente libero! Corri Cece, veloce come la luce, braccia aperte e vai…»
La vita vera lo attende: luce per i suoi occhi che la malattia ha reso ciechi, libertà dal dolore e l’amore della Mamma celeste, che può prendersi cura di lui.
Siamo nati, siamo stati amati e abbiamo amato. Per questo non moriremo mai più. Ciao Cesare, ci vediamo di là.
