Il senso della vita e la malattia
Il festival di Sanremo mi ispira una riflessione sulla malattia e sul senso della vita. Potrebbe sembrare una strana associazione di idee. Premetto che non ho visto il Festival. Mea culpa. Avevo una call tardissimo, con gente residente sulla costa occidentale americana: nove ore in meno di fuso orario e la matematica certezza che non esista un orario per sentirsi, che sia comodo per entrambi. Ho perso il festival, ma poco male.
Il festival di Sanremo non lo perdi mai davvero. Perché, come una pozzanghera colpita da un sasso, dissemina minuscole e numerosissime gocce ovunque. Tutti ne parlano, le canzoni vanno in onda comunque e in ogni luogo, le polemiche e le provocazioni popolano le conversazioni di tutti. Dovresti andare una settimana sulla luna o farti ibernare, per non essere raggiunto da una pioggia di notizie, opinioni, aneddoti.
Così mi è capitato, fra i tanti episodi, di sentir parlare dell’apparizione di Bianca Balti. La Balti non canta, ma è un personaggio ben noto. Oltre che per la sua carriera, di lei si è molto parlato negli ultimi mesi, per via di un cancro abbastanza grave, di cui lei stessa non ha fatto mistero.
La Balti, il cancro, la speranza
Bianca ha deciso non solo di apparire sul palcoscenico del festival, ma anche di mostrarsi per com’è. Ha perso i capelli per la chemio, ha le cicatrici dell’intervento. Non vuole che la si indichi come malata. La sua è una testimonianza di gioia, di speranza, di voglia di vivere, seppure in un momento difficile.
E da collega (ho avuto il cancro anche io, ci sono ancora dentro) mi ha stimolato delle riflessioni. Avere un incontro ravvicinato con il cancro, cambia non solo la tua quotidianità, ma anche il modo in cui percepisci la realtà. E cominci a fare caso a tutto, anche ai dettagli.
In questi mesi, ho notato come, intorno alla malattia, si insinui una retorica che è ormai così consolidata, che non ce ne accorgiamo. Dei malati di cancro si dice che sono guerrieri. Il loro percorso di terapia viene spesso accomunato a una battaglia. L’immagine è certamente suggestiva, ma molto pericolosa. Così come una persona non è la sua malattia, la vita non può essere ridotta a lotta al cancro.
Farlo significa dimenticare che la vita durante la malattia è comunque vita. Ciò significa che è uno spazio meraviglioso, in cui abbiamo tanti doni: l’affetto di chi ci circonda, la bellezza del mondo, le amicizie, le buone letture, la musica. Non sappiamo se ci saremo domani, ma è certo che ci siamo oggi.
La malattia è un promemoria della bellezza della vita
La malattia ci ricorda che non siamo eterni. È una verità indigesta che, di solito, quando stiamo bene, tendiamo a dimenticare. Crediamo che il nostro tempo sulla terra sia eterno. Per questo, rischiamo di sprecarlo. La lezione più grande che mi ha insegnato il cancro è che la vita va vissuta momento per momento. Farsi scivolare addosso il presente, perché si è troppo presi a fare progetti per il futuro, è un grave errore.
Il cancro è un grandioso promemoria della nostra condizione passeggera. Questo è il lato doloroso, brutto, spaventoso. Assieme però, ne viene uno più bello: possiamo e dobbiamo goderci a pieno l’oggi, che è davanti a noi. Essere ammalati ci rammenta la bellezza della vita.
La retorica del cancro come battaglia
Per questo, tutta la retorica della malattia come combattimento non funziona. La malattia non è un corpo estraneo, un nemico che possiamo chiudere fuori dalla nostra vita e continuare come nulla fosse. E’ un aspetto della vita, dobbiamo conviverci. Dobbiamo accogliere la sofferenza, non lasciarcene schiacciare.
Altrimenti, questa idea del combattimento rischia di ingoiare tutto il resto. Ciascun giorno è un tempo che ci viene donato, perché ne facciamo il miglior uso possibile. Siamo stati progettati per essere felici, non per fare il conto alla rovescia.
Il cancro rende chiara una verità che spesso si ignora: che il senso di una vita, non dipende dalla sua durata, dal successo, dai traguardi raggiunti. Non conta solo come percorso che ci porta a realizzare qualcosa. La vita è bella anche nei singoli momenti. È fatta anche di intervalli discreti, in cui si può essere immensamente felici, pur non andando da nessuna parte.
Questo ci permette anche di superare l’apparente tragicità di una morte prematura. La morte dell’innocente è un mistero triste. Eppure prima della morte, c’è sempre stata la vita. Quindi speranza, amore e gioia. Chi ha vissuto, tanto o poco, ha amato ed è stato amato. E questo, come diceva Chiara Corbella, è il motivo per cui veniamo al mondo.
Un paziente modello: Giobbe
Il vero paziente dovrebbe prendere esempio da Giobbe, quel personaggio della Bibbia, di cui il demonio decide di mettere alla prova la fede. E, come sempre, il demonio gioca la carta di scatenare eventi tragici, in modo che Giobbe perda la fiducia e la speranza. Ma Giobbe, che ha una vera e solida fede, non cade nella trappola. Egli è davvero paziente, ovvero sofferente, ma anche disposto all’accoglienza del dolore.
Non ingaggia una lotta con i molti malanni che si abbattono su di lui. Lui conserva la consapevolezza, pure nella tragicità degli eventi, che la vita è un enorme dono di cui è stato reso partecipe. Un dono per cui coltiva gratitudine a Dio, pur nel dolore:
«Il Signore ha dato, il Signore ha tolto,
sia benedetto il nome del Signore!».
Per questo, da malata, dico a tutti i malati, smettete di lottare, e ricominciate a vivere.
