Gentile Padre, visto che il Signore è buono e opera il nostro bene, è giusto pregarlo per la guarigione di una persona cara, o perché risolva un problema o trovi lavoro? Non dovremmo lasciar fare a Dio?
Per rispondere se sia meglio lasciar fare a Dio, bisogna fare un ragionamento. Mi piace spesso ripetere,: «Siamo nelle mani di Dio… e non vi è posto più sicuro di questo». Lo dico soprattutto a me stesso oltre che alle persone che, per qualche ragione, vengono a parlarmi
È vero che ci vuole una buona dose di fiducia in Dio per accettare questa che, per me, è una bellissima e consolante verità.
Essere nelle mani di Dio significa, che ci si fida di Lui, che sa cosa è buono per noi e, soprattutto, desidera molto di più che noi stessi, la nostra felicità.
Chiedere a Dio non è mettere una monetina nel distributore
È vero pure che per accogliere questa verità sia necessario superare l’idea che paragona Dio al distributore di lattine: “io ho messo la moneta, tu mi devi dare la lattina – io ho fatto la preghiera, tu mi devi fare la grazia”.
Si aggiungano, poi, l’eccezionale sapienza popolare che ci invita all’azione mettendo al bando ogni forma di pigrizia e oziosità –«aiutati che Dio ti aiuta».
L’invito viene dai santi maestri di vita per tutti noi: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio». (cfr Pedro de Ribadeneira, Vita di S. Ignazio di Loyola, Milano 1998), massima attribuita asant’Ignazio ma diffusa con formulazioni analoghe da altri campioni di santità.
Partendo da questi principi o criteri d’azione, (se così li possiamo definire) mai e poi mai possiamo abbandonarci ad un’idea della divina Provvidenza che porti con sé una inammissibile inerzia e passività.
Invece confidiamo nell’azione provvidente di un Dio che conosce il nostro bene e quale sia la nostra felicità molto meglio e molto più di noi.
Certo è – questa è un’aggiunta o postilla che ci deve far pensare – quando preghiamo siamo sempre e comunque ai piedi di un Uomo (che è anche Dio) in croce. Fa pensare, infatti, che gli imploriamo la salute mentre Lui è sofferente sull’Alberto della Vita.
Chiedere e poi lasciar fare a Dio
Questo non significa che dobbiamo smettere di chiedere la salute e l’allontanamento della malattia.
Bisognerebbe, con maggiore umiltà aggiungere alla nostra preghiera che, nel caso in cui non ci è tolto il male che stiamo vivendo, possiamo ricevere o essere confermati nella grazia di poterlo sopportare.
La sopportazione, o meglio l’accettazione di un male – fisico, spirituale o morale che sia – porta sempre con sé un accrescimento della nostra fede ed è un aiuto nella vita spirituale.
San Pietro ci richiama al riguardo: «siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell’oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo» (1Pt 1,6-7). A nessuno piace essere provato dal fuoco.
Il significato della sofferenza
Se da un lato, la sofferenza ha un valore medicinale, ci forgia come si fa con l’oro nel fuoco e ci affina nella nostra vita spirituale, è altrettanto vero che ha un significato spirituale fondamentale.
Nell’epoca moderna la sofferenza è messa al bando al punto da ricorrere, cercando di diffonderne la pratica, all’eutanasia secondo la quale bisogna fare di tutto per non soffrire: e questo accade perché non se ne comprende il senso.
In quest’ottica diventerebbero da folli le parole di un famoso “folle di Dio”, san Francesco d’Assisi: «è tanto il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto».
Non di certo un invito a cercarsi la sofferenza, sia chiaro, ma la verità del senso che può assumere una croce. Nel momento in cui è vista in relazione al Paradiso, luogo di ogni gioia, ci fa comprendere anche il vero senso della tanto spaventosa ed evitata sofferenza.
E se non bastasse, poniamoci un’ultima salutare domanda: «chetipo di salvezza e di bene cerchiamo? …la salute in questa vita o la salvezza eterna?».
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