Cosa c’è in un rosa?
Parafrasando Shakespeare, in Romeo e Giulietta: cosa c’è in un rosa? Ve la ricordate la battuta? E’ la famosa scena del balcone. La più famosa, la più iconica, quella che tutti ricordano. Anche quelli che non hanno mai letto la tragedia di Romeo e Giulietta e nemmeno hanno mai visto il famosissimo film di Zeffirelli.
Giulietta si sporge dal Balcone, sotto c’è Romeo. I due si parlano così, in un’epoca priva di cellulari. A un certo punto, Giulietta chiede a Romeo di rinunciare al suo cognome, visto che la sua famiglia, i Montecchi, è rivale della propria. E gli dice:
Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo rosa, con un altro nome, non profumerebbe altrettanto dolcemente?
E cosa c’è in un rosa? forse che con un altro colore, le cose non sarebbero altrettanto belle?
Lo smart working, i parrucchieri e le mollette per capelli
Dopo quasi un settennio di acconciature cortissime, ho ricominciato ad avere i capelli lunghi. È stato un caso, più che una scelta. A un certo punto non avevo più il tempo, né la voglia di andare dal parrucchiere. Un po’ per la mia nuova condizione di lavoratrice da remoto, modo elegante di definire quegli arresti domiciliari che è lo smart working.
Situazione in cui passi le giornate in ciabatte e tuta da ginnastica e struccata, perché chi mai si truccherebbe per stare da sola in casa? Anche se poi, via teleconferenza, in casa tua entrano tutti, seppur virtualmente. Ho disertato il parrucchiere anche per via della reclusione del secondo tipo, quella per ospedali e ambulatori, negli ultimi mesi.
Insomma, se mi capitava di avere un pomeriggio o anche solo un paio d’ore libere, a tutto pensavo meno che a chiudermi fra quattro mura, magari fra le grinfie di un parrucchiere in preda al delirio di onnipotenza.
E così, senza quasi rendermene conto, mi sono ritrovata coi capelli lunghi fino alle spalle, come non mi accadeva da tempo. Mi sono dovuta attrezzare e ho comprato delle mollette per capelli. Ho spiegato a mio marito la funzione di quegli oggetti per lui misteriosi. Nonostante la forma di pinze, con tanto di dentelli di plastica, non sono strumenti di tortura medievale, ma banali accessori per i capelli.
50 sfumature di rosa
Così, ho comprato un set di mollette rosa. Una cosa che ha sorpreso il mio consorte, anche più delle mollette stesse. Perché io non ho mai amato il rosa. Anzi, a dirla tutta, ho sempre nutrito una viscerale e genuina antipatia per il colore rosa.
Freud forse direbbe che questa avversione ha una radice profonda e lontana, nella mia infanzia. E avrebbe ragione. Quando ero bambina e poi ragazzina, le cose destinate a noi erano rosa. Erano rosa le magliette, i vestiti, gli zaini, felpe, i portacolori, il grembiule a scuola, le mollette per capelli. Un trionfo di rosa, in tutte le possibili varianti. 50 sfumature di rosa.
I maschi potevano vestire di azzurro, di blu, di verde, di arancione, di giallo (ebbene sì, eravamo pur sempre negli anni 80). Al limite, potevano scegliere persino il marrone, il grigio o il nero. Noi ragazze, invece, avevamo solo la gamma cromatica del rosa. Dal cipria al rosa shocking con in mezzo il rosa antico, il rosa corallo, il rosa fragola eccetera eccetera.
Non era possibile uscire da questo conformismo cromatico, neanche a volerlo. C’era una specie di equazione: ragazza uguale rosa. Vestiti e accessori femminili di colori diversi dal rosa praticamente non esistevano. E le cose da maschio non ce le saremmo messe. Perché noi ragazze del novecento, avevamo idee molto chiare su cosa fosse da maschio e cosa da femmina. L’unisex ancora non era stato inventato.
Andare in giro con una tuta blu da maschio era fuori discussione. A meno che a una poveretta non venisse costretta, da genitori insensibili alla moda, a riciclare i vestiti smessi da un fratello maggiore.
La moda di oggi è meno normativa
Adesso non voglio metterla giù troppo dura. Non ho alcuna intenzione di piangermi addosso e raccontarvi che sia stato un trauma, crescere in una bolla rosa confetto da cui non era possibile evadere.
Proprio perché sono nata nel novecento e non in questa epoca governata da facili traumi e continue recriminazioni, mi rendo conto che non ha senso dire che il rosa imperante ci togliesse la libertà di espressione.
Sono consapevole che il termine “libertà” vada maneggiato con delicatezza, ché gli attentati alla libertà sono cose ben più gravi che avere a disposizione una gamma limitata di nuance di rosa.
Devo dire però, che, in conseguenza di tutto questo, da adulta ho bandito il colore rosa da quasi tutti miei outfit. L’epoca attuale è ben più generosa con le donne, dal punto di vista cromatico.
Non disdegna i colori più improbabili, sdogana abbinamenti cromatici ai limiti della realtà. Soprattutto, la moda è diventata meno normativa. Femminile non fa più rima con rosa, tranne nell’abbigliamento da corsa, che continua a declinare il rosa in tutte le sue sfumature, ma di questo parliamo un’altra volta.
Il ritorno del rosa
In questi anni ho fatto una overdose di tutti i colori. Ne ho collezionati praticamente di ogni tipo. Specialmente quelli più scuri: il blu, il grigio metallo e, sopra ogni cosa, il nero. Il nero è un colore elegante, ma soprattutto è il massimo della praticità: non si sporca, sfina e non dà nessun problema di abbinamento, perché sta bene con tutto.
A un certo punto, però, a furia di accumulare magliette, giacche, pantaloni e maglioncini neri, mi sono ritrovata ad avere un guardaroba monocolore e un po’ lugubre. È stato così che, un poco alla volta, senza che me ne rendessi conto, il rosa ha cominciato a colonizzare il mio armadio.
Ha cominciato con poco: qualche riga rosa nell’ordito di una giacca, una piccola balza di seta rosa attorno ai polsini, una camicia fantasia con qualche dettaglio rosa. Così ho fatto pace col rosa. Il rosa si è insinuato gradualmente, ma sempre più tenacemente. La mia resistenza si è ammorbidita. Ho scoperto che il rosa può essere bello, se è davvero una scelta.
La trappola del conformismo
Soprattutto, ho capito quanto il conformismo possa generare anticorpi potentissimi ed energiche reazioni di rifiuto a qualunque cosa. Persino a quelle belle per natura. Creare troppi stereotipi, attorno alla femminilità, all’immagine, alla moda, distorce la nostra percezione del bello e del buono. Ci intrappola in categorie rigide. O, al contrario, ci porta a una ribellione, che prescinde dalla sostanza e può portarci a tradire i nostri veri gusti, desideri, e la nostra capacità di valutare oggettivamente la realtà.
Questo ha a che fare con qualche delicato meccanismo della psiche umana. Un meccanismo che rende detestabile quello che ci viene imposto come unica possibilità e, invece, bello e desiderabile quello che ci è inaccessibile. In fondo, non c’è desiderio più profondo che quello per ciò che non si può avere.
In fondo, c’è un proverbio che recita che: l’erba del vicino è sempre più verde. O magari, può essere anche rosa.
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