Il tupperware e i ricordi
Quelle del tupperware. Vi ricordate? Una notizia recente mi ha sbloccato un ricordo adolescenziale, sui mitici contenitori.
Taranto, anni 80. Mia madre è una moglie, madre, insegnante di lettere. È una casalinga assolutamente adeguata, per il contesto e gli standard dell’epoca.
Rispetto alle massaie della mia generazione, sarebbe una virtuosa.
Una quotidiana abitudine a mandare avanti una casa, senza il supporto di particolari tecnologie (niente scopa elettrica, dyson, asciugatrice, robot da cucina).
Essere casalinga, negli anni 80 e in una cittadina di provincia, era un lavoro vero. Di più: era uno status. Oggi, invece, le faccende domestiche sono diventate: quelle cose che faccio nei ritagli di tempo della mia vita vera.
A mia madre non mancava nulla per essere una potenziale acquirente di contenitori per alimenti. Eppure, quelle del tupperware non ci invitavano mai.
Il tupperware, il principe dei contenitori
Tupperware era una marca americana di contenitori per alimenti. C’erano ovviamente altre marche. Contenitori simili si potevano acquistare un po’ ovunque: al mercato, nei negozi di casalinghi e nei supermercati molto forniti. Ma non erano tupperware. I tupperware erano prodotti di prima classe, il top di gamma, l’élite dei contenitori.
Elitario era anche il loro canale di distribuzione. Li si poteva acquistare solo dalle rivenditrici autorizzate. Quelle del tupperware. Donne che organizzavano nelle loro case eventi a invito. Le potenziali acquirenti erano massaie scelte nella cerchia di amiche e conoscenti.
Anche se il fine ultimo di questi incontri era la vendita di tupperware, si trattava comunque di eventi con un certo contenuto di socialità. Riunioni donnesche, in cui le massaie chiacchieravano, ampliavano il giro delle conoscenze, si confrontavano in abilità muliebri. Insomma, l’evento tupperware era un termometro del grado di integrazione delle partecipanti nella comunità. E a noi non ci invitavano mai.
La setta dei tupperware e la socialità
Per mia madre era un cruccio. Certo per la mancata opportunità di aggiudicarsi i contenitori tupperware, che le leggende metropolitane dipingevano come alto performanti, super igienici, praticamente eterni. Ma anche per l’esclusione da queste sette del tupperware.
Perché non ci invitavano mai? Mia madre mi includeva generosamente nella situazione. Malgrado io, a tredici o quattordici anni, non provassi particolare interesse per i tupperware (se per questo, nemmeno a diciotto, venti o trenta. Anzi, venuta via da Taranto, mi ero persino dimenticata dell’esistenza dei tupperware).
Per tutta l’adolescenza, sono stata compagna di avventure di mia madre. Lei era troppo impegnata, fra lavoro e famiglia, per coltivare amicizie durevoli. E forse anche troppo spigolosa e perfezionista, per trovarsi in quei contesti sociali.
Credo che fosse quest’ultima la ragione dei mancati inviti. Non come accadrebbe a me. Nessuno mi darebbe credito, come massaia.
E avrebbero ragione. Ricordo un’unica eccezione, quando la mia amica Alida mi invitò a una dimostrazione di macchinette per il caffè in capsule, a casa sua. Merito tuo, Alida, per avermi fatto sentire integrata, non ti ho ringraziato abbastanza a suo tempo.
Le regole del mondo
Per mia madre, il fatto di non essere invitata, era un mancato riconoscimento del suo status e della sua appartenenza, a pieno titolo, alla categoria delle massaie ben inserite.
Sono passati alcuni decenni da allora. Ci fu poi il trasferimento a Milano. Nuovo ambiente e nuove mancate amicizie. Perché se già è difficile farsi una rete sociale in una cittadina di provincia, figuriamoci in una grande città.
Il crollo di un impero
Non avevo più pensato ai tupperware. Poi ho letto del fallimento dell’azienda. Mi sono chiesta il perché. Quel business, ai tempi della mia adolescenza, sembrava floridissimo. Pare che, dietro al fallimento, ci sia proprio il modello di vendita. Quegli incontri elitari che avrebbero fatto la gioia di mia madre, adesso non interessano più a nessuno.
Sono cambiate le regole del mondo. Si cucina sempre meno. Si comprano sempre più cibi pronti. Gestiamo un pasto alla volta, senza cucinare eccedenze. Compriamo cibo d’asporto.
Ma, soprattutto, si è allentata la dimensione della socialità. Dal lunedì al venerdì lavoriamo. Nel fine settimana c’è a stento il tempo di fare tutto il resto: la spesa, le faccende domestiche, un po’ di spazio per noi e per la famiglia.
Chi avrebbe voglia di passare un pomeriggio o anche solo due ore, alla dimostrazione di un contenitore? oggi che puoi comprarlo in trenta secondi su Amazon, e riceverlo comodamente a casa tua? Chi investirebbe il suo poco tempo libero per i contenitori per gli avanzi, in un mondo in cui quel che non serve costa meno buttarlo, che conservarlo per bene?
D’altro canto, è crollato pure l’impero romano, che conteneva ben altro che i nostri avanzi alimentari. Requiem per il tupperware!
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