Sperare l’insperabile
Un amico che mi vuole bene, mi ha mandato un breve verso, un invito meraviglioso a sperare l’insperabile.
E’ di Eraclito, filosofo greco vissuto venticinque secoli prima di noi, che già gli antichi avevano soprannominato: l’oscuro. E quindi, se non lo capiamo, possiamo autoassolverci: non è colpa del nostro greco traballante (non solo di quello).
Fra i tanti versi di Eraclito l’oscuro, questo è davvero chiaro: ἔλπιζε ἀνέλπιστον (suonerebbe più o meno così: Elpize anelpiston). Significa: Spera l’insperabile. Eraclito non conosceva Dio. Per lo meno, non come lo conosciamo noi. Per tutta la vita cercò di capire quale fosse il principio che governa la realtà.
Concluse che nel mondo ogni cosa ha un suo contrario e che questi contrari si ricompongono in un equilibrio, per effetto di un logos divino che governa il tutto determinandone l’armonia.
Eraclito viveva in Grecia, cinquecento anni prima della nascita di Gesù. Anche se nessuno gli aveva rivelato Dio, lui ne aveva intuito la forza creatrice ed equilibratrice, alla base di tutta la realtà. E in questa forza per lui sconosciuta, invitava a sperare, anche contro l’evidenza, contro il calcolo delle probabilità, contro ogni immaginazione.
Il fatto che le nostre vite siano nelle mani di Dio, ci libera profondamente. Implica che non abbiamo la responsabilità di determinarne ogni aspetto. Tutto è possibile a Dio, per questo, se ci affidiamo a lui, possiamo sperare qualunque cosa. Anche la più improbabile.
Perché sperare
Sono sempre stata incline a ben sperare, a vedere il bicchiere mezzo pieno o anche solo pieno per un quarto, per un ottavo, per un dodicesimo. La speranza ha a che fare col futuro e con i nostri desideri. Sperare dà una dimensione concreta ai nostri sogni: li colloca in un contesto, in un periodo di tempo, in una serie di circostanze.
Sperare è il modo in cui cerchiamo di immaginarci, almeno in parte, un futuro che non ci appartiene. Non a caso, la speranza è una delle tre virtù teologali, quelle che regolano il rapporto tra noi uomini e Dio, a cui esse sono rivolte. Teologale deriva dal greco θεός, “Dio” e λόγος, “parola”.
Accanto alla speranza più grande di tutte, la salvezza, noi continuiamo per tutta la vita a sperare cose più piccole, talvolta quotidiane. Per esempio, che i figli superino gli esami e le interrogazioni a scuola, che rimaniamo a lungo in buona salute, che riusciamo a trovare un appartamento su misura delle nostre necessità, budget incluso.
La speranza non è cosa umana. Parte dal desiderio dell’uomo, ma si compie solo con la volontà di Dio. A volte non lo capiamo, altre volte semplicemente non riusciamo ad accettarlo. Vorremmo che le nostre speranze venissero comunque avverate: dalla scienza, dalla medicina, dalla tecnologia, da qualunque capacità umana che si possa mettere in campo.
Sperare contro l’evidenza
Ieri ho saputo della morte di Paola Marella, un volto noto della TV. Architetta, designer, conduttrice televisiva, venuta a mancare per la recidiva di un cancro al seno, che sperava di avere sconfitto e che è tornato inesorabile, tredici anni dopo.
Un cancro di solito abbastanza curabile, che di solito, passati dieci anni, si considera quasi certamente guarito e a scarso rischio di recidiva. E invece…
E invece non c’è nulla di certo. Anche se talvolta ci ubriachiamo di scientismo, la vita, la morte, la malattia restano un mistero che non possiamo illuderci di poter maneggiare.
Rimane sempre vero, anche per quelle malattie che consideriamo risolvibili, che l’uomo cura, ma solo Dio davvero guarisce.
Se non guariamo, non è perché non abbiamo fatto abbastanza. E nemmeno perché non abbiamo sperato abbastanza. La guarigione non è nelle nostre mani.
Ed è vero anche il contrario. Ci sono persone che guariscono, contro ogni previsione. Persone a cui viene data una prognosi terribile, una aspettativa di vita residua di pochi mesi o settimane, che invece vedono avverarsi la loro speranza di guarigione e sopravvivenza.
La speranza non è un incantesimo, una formula magica. Non esiste la clausola: “soddisfatti o rimborsati”. Accade quello che Dio stabilisce, per il nostro bene. Talvolta il nostro bene coincide con le nostre speranze e desideri, ma altre volte no.
Fra quello che l’uomo desidera e quel che Dio dispensa, fiorisce la nostra capacità di sperare.
Gli effetti della speranza
Ieri, la prima lettura (di rito ambrosiano) parlava proprio di questo. Mi piace pensare che sia perché Dio non fa mai nulla per caso. Il profeta Elia si è spinto nel deserto e vuole morire.
s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino, andò a mettersi seduto sotto una ginestra, ed espresse il desiderio di morire, dicendo: «Basta! Prendi la mia anima, o SIGNORE, poiché io non valgo più dei miei padri!» Poi si coricò, e si addormentò sotto la ginestra. Allora un angelo lo toccò, e gli disse: «Àlzati e mangia».
Egli guardò, e vide vicino alla sua testa una focaccia cotta su pietre calde, e una brocca d’acqua. Egli mangiò e bevve, poi si coricò di nuovo. L’angelo del SIGNORE tornò una seconda volta, lo toccò, e disse: «Àlzati e mangia, perché il cammino è troppo lungo per te». Egli si alzò, mangiò e bevve; e per la forza che quel cibo gli aveva dato, camminò quaranta giorni e quaranta notti fino a Oreb, il monte di Dio. 1Re 19, 4-8
Elia dice basta, perché la vita gli sembra insostenibile. Spera di morire. Anzi, fa proprio di tutto per morire: si addentra nel deserto, senza cibo né acqua. Ma non è la morte che lo attende. Un giorno morirà, ma non è quello il giorno. Per un bene maggiore, Dio ha deciso altrimenti.
Non è padrone Elia, come non lo siamo noi, della vita, anche se ci illudiamo di sì. Non tutto quello che spera si realizzerà. Per quanto forte sia il suo desiderio. Dio gli dice di rimettersi in cammino. Quel cammino metaforicamente, vuol dire proseguire con la sua vita. Elia non sa perché, né cosa lo attende, però obbedisce a Dio. Cammina per quaranta giorni e quaranta notti, incontro al suo destino.
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