La narrativa dei classici
Da molti anni non leggo più narrativa. Credo siano a occhio e croce quindici. Prima, facevo grandi scorpacciate di narrativa.
Da ragazza ho letto molti romanzi classici. Nella libreria dei miei c’era una vasta scelta di romanzi: narrativa russa, francese, inglese, americana, italiana. Tutto a patto che l’autore fosse morto e sepolto da almeno cinquant’anni. Su questo, i miei erano categorici: in fatto di narrativa il peggio che possa capitare al lettore è finire vittima della moda del momento.
Mia madre teorizzava che non fosse il caso di leggere l’ultimo best seller, dell’autore famoso e fotogenico. Per decidere se un libro di narrativa meritasse, bisognava che su di esso si fosse depositata una fitta coltre di polvere. La polvere era l’antidoto alla caducità delle mode e della promozione editoriale, secondo mia madre.
La narrativa contemporanea
Leggere i classici è un esercizio di pazienza. Sono storie in cui spesso, per pagine e pagine, non succede assolutamente nulla. Ai classici bisogna dare tempo. Un tempo che spesso non siamo più disposti a concedere a una lettura.
Questo l’ho capito molto più tardi, quando, ormai adulta, ho deciso di trasgredire la regola aurea di mia madre. Mi sono buttata a capofitto nella narrativa contemporanea. Ho scoperto allora quanto sia cambiato il modo di scrivere.
Gli autori di narrativa di oggi sanno di avere a che fare con lettori meno pazienti, con poco tempo a disposizione, più bisognosi di emozioni. I romanzi moderni di successo ti agganciano alle prime righe e non ti mollano più.
Ho passato nottate intere a leggere, fino alla fine, libri da cui non potevo staccarmi. Questa specie di dipendenza psicologica dalla trama, mi ha fatto capire come le emozioni, più che la riflessione, il contenuto, il messaggio, sono ciò che guida il lettore di narrativa di questo secolo indaffarato e poco introspettivo. Per questo, credo, a un certo punto mi sono staccata dalla narrativa, stanca di autori furbetti, che creavano luna park per le emozioni. Molto meglio la saggistica.
L’abbandono della narrativa
In questi ultimi quindici anni (ma potrebbero essere qualcosa di più o di meno) ho letto rarissimamente narrativa. Ho così deluso tanti conoscenti, che mi segnalavano romanzi per loro bellissimi e assolutamente imperdibili.
Facevo eccezione solo per qualche libro la cui trama mi catturava o mi incuriosiva particolarmente. Oppure, per i libri regalati da amici. Su questo sono fermissima: se un amico ti regala un libro, quello va letto anche se non piace, non interessa, non è il nostro genere. E’ una questione di affetto e rispetto.
Il libro della settimana
Il mio abbandono della narrativa ha poche eccezioni. Oggi voglio parlare di questo libro che ho portato in vacanza e che è veramente perfetto per l’ombrellone, o per la cima del monte o per dove volete andare in vacanza e spegnere il cervello leggendo. Pur nella sua leggerezza, mi ha fatto riflettere.
S’intitola: Il privilegio di essere un guru. Non è certo una nuova uscita. E’ dell’inizio degli anni 2000, e dalla lettura si sente. Mia madre aveva ragione: la polvere non appanna i classici. Invece si vede tantissimo sulla narrativa contemporanea, che racconta il nostro stile di vita in modo un po’ troppo contingente. Si capisce subito che è un libro dell’epoca pre internet.
Non si parla di smart phone, non si cita il web come fonte di informazione. Il protagonista si documenta sugli argomenti che gli interessano, andando a far scorta di manuali in libreria. La vita narrata è incredibilmente reale: niente avatar, social, profili web, messaggistica.
La trama
Il protagonista è un simpatico donnaiolo: Andrea Zanardi. Il suo obiettivo è conquistare più donne possibile. A questo scopo dedica tutte le sue risorse: tempo, energia, soldi. E’ costantemente a caccia di possibili prede. Ha sviluppato una certa abilità a riconoscerle e classificarle, secondo sue specifiche categorie. Le corteggia per tutto il tempo necessario e, quando cedono, perde immediatamente interesse e passa alla donna successiva.
Finché non conosce Maria. Non immaginatevi una Beatrice dantesca. Maria incarna uno stereotipo non troppo lusinghiero, anche se terribilmente contemporaneo. Licalzi la descrive così: ingenua, insicura, influenzabile, di cultura medio bassa ma con velleità intellettuali, quattro caratteristiche queste che, se ben miscelate, conducono spesso la fervore spirituale di bassa lega.
Maria, conclude lui, sarà un osso duro: crede nell’amore universale, nel principe azzurro e negli incontri Karmici. Maria rappresenta una tipologia di persone che vediamo tutti i giorni. Quelle che hanno incanalato il loro bisogno di spiritualità in tutta una serie di pseudo teorie filosofiche, folklore new age, tecniche balzane al limite della superstizione.
Per fare colpo, Andrea intraprende una full immersion di Reiki, cucina macrobiotica, Feng Shui, teorie di metempsicosi, yoga, agricoltura biodinamica. Per settimane mangia solo verdure biologiche e nasconde un salame nella manica di un cappotto. Passeggia a piedi nudi sull’erba e abbraccia alberi che lo riempiono di resina. Le sue peripezie sono piuttosto divertenti, e il personaggio risulta subito simpatico.
Finalmente Maria cede al suo corteggiamento. Lui, come da copione, esce di scena.
Il colpo di scena
Eppure, non torna quello di prima. Qualcosa è cambiato in lui. Prende sei mesi di aspettativa dal lavoro, e va in Giappone. La sua idea sarebbe conquistare donne giapponesi, almeno questo è quello che dice a sé stesso. Invece fa conoscenza con un monaco buddhista, che lo stupisce perché: era uno che galleggiava sopra tutto il dolore del mondo, mentre io affondavo soltanto nel mio.
L’uomo lo incuriosisce, i due fanno amicizia. A un certo punto gli fa delle domande su Dio e sulla spiritualità. Emergono le differenze fra le due religioni. Ne viene fuori un confronto che mai ti aspetteresti in un libro da ombrellone.
Poche battute e Andrea, che certo non è mai stato un santo e nemmeno un devoto, dice al monaco: io credevo che il Nirvana fosse più o meno come il paradiso, che te ne stai lì beato, per l’eternità, che sei tu, proprio tu, addirittura, dopo il giudizio universale ti ridanno perfino il corpo! No caro mio, mi dispiace, ma non c’è paragone, se è come dici tu, preferisco il Paradiso, ma alla grande. I prefer the Paradise, I am sorry!
Le sorprese della narrativa
Non si tratta di un libro memorabile (l’ho comprato usato, almeno di terza o quarta mano, con la copertina spiegazzata e sporca, dal libraccio a due euro e non ne vale di più). Tuttavia, lo consiglio.
Mi ha colpito questa fotografia ironica e divertita, ma molto lucida, di quella fetta di umanità, sempre più ampia, che crede che Dio sia fuori moda, e soddisfa il suo senso del sacro, del mistero, del bisogno di trascendenza, con tutta una serie di filosofie e favole, che comunque, come dice Andrea quasi alla fine, sono un rimpiazzo che lascia l’amaro in bocca. Una delusione, rispetto a quella idea luminosa di Paradiso, di cui ci parla il cristianesimo.
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