Cercavo un ristorante per una cena di lavoro con clienti stranieri. Chissà come si chiama quella sindrome per cui i clienti stranieri, anche se vivono nel più remoto e reietto angolo di mondo, quando vengono qui vogliono un ristorante figo che più figo non si può. Ubicato nel centro che più centro non si può. Ma di questo parliamo un’altra volta.
Per adesso, conviene concentrarsi su un problema più immediato: a Milano trovare posto in un buon ristorante è un’impresa.
Almeno quanto trovare un taxi. Con la differenza che al taxi puoi affiancare delle alternative, al ristorante no. Se hai gente che sembra essere venuta a Milano precipuamente per mangiare in qualche famoso, figosissimo, centralissimo ristorante milanese, allora alternative non ne hai. E cominci il giro delle sette chiese.
Il giro delle sette chiese e un ristorante
Però in chiesa un posto lo trovi. Sarà per via di quel: bussate e vi sarà aperto? Al ristorante invece no. Bussa pure quanto vuoi, non abbiamo disponibilità. Siamo al completo. Non abbiamo tavoli liberi, almeno fino alle 22, ma alle 22.30 la cucina chiude. I ristoranti di Milano sono tutti ecumenicamente concordi nel dirti che sono pieni. Anche se prenoti tre giorni prima.
Se una gazzella nella savana si alza e sa che dovrà correre, per non farsi catturare da un leone e fargli da colazione, un milanese, nella giungla metropolitana, deve correre a prenotare uno di quei ristoranti. Prima che qualcuno più veloce gli freghi il tavolo. E così lo privi della possibilità di mangiare cose meravigliose in questi templi del gusto. Fra i dei pochi templi che oggi siano sempre molto affollati, anche nei giorni feriali.
Come a esempio: Vellutata di castagne con capesante caramellate e petali di mandorle tostate. Oppure: Polpo arrostito con tortino di patate, pomodorini confit, olive taggiasche, basilico e pinoli tostati. Piatti che saziano soprattutto le orecchie e la testa. Perché, quando te li trovi davanti, è abbastanza chiaro che non sazieranno lo stomaco.
La legge non scritta del ristorante
Esiste una legge universale dei ristoranti fighi. Più sono tali e più trattano i clienti con sufficienza. Non con maleducazione o antipatia, badate bene. No, proprio con sufficienza. Ovvero: forse potremmo farti l’onore di accoglierti qui e permetterti di pagare un pasto come un fine settimana al mare, ma non stavolta. Per accedere ai riservatissimi ranghi delle nostre prenotazioni, bisogna chiamare almeno una settimana prima.
Oppure, bisogna conoscere qualcuno di molto importante, che prenoti per te. Per questo favore, contrarrai un obbligo di riconoscenza a vita. Manco fosse un patto di sangue medievale.
Nel ristornate figo, non solo devi prenotare con molto anticipo. Non solo pagherai cifre spropositate. Tutto questo ancora non basta: devi pregare, supplicare, mostrare reverenza al ristoratore e alla fine gratitudine, per il raro privilegio concesso. E, se lo ottieni, invece di arrabbiarti, devi ricavarne l’ancora più forte convinzione che quello sia un posto speciale. Mica basta volerci andare. Bisogna essere anche smaccatamente fortunati, raccomandatissimi o disposti a prenotare settimane prima.
La foto che non ti aspetti
Forse alla fine uno ci accetterà, ma solo a condizione di ricevere in anticipo una foto. Primo piano o figura intera? Non indignatevi, il ristoratore non è un feticista delle foto. L’immagine che chiede è quella della carta di credito.
Il che, considerato che ristorante fighetto dice di essere, appare un po’ inquietante: fateci vedere la carta di credito. Altrimenti non vi prenotiamo nemmeno uno strapuntino visto toilette. Se volete mangiare da noi, dobbiamo accertarci della vostra solvibilità. Mica che vi sbafate la nostra vellutata di castagne e poi non avete credito per pagare il conto!
Le aspettative del cliente
Tutto questo sbattimento va affrontato, benché l’ospite straniero di solito non sappia riconoscere non dico una marinatura al lime da una al fiore della passione, ma nemmeno uno scampo da una mazzancolla. Oppure un pomodoro perino da un datterino. Perché, diciamocelo, il cliente straniero è generalmente un consumatore di bistecche, salsicce, pesce affumicato, riso.
Lui un pinolo non lo ha mai visto. Quando lo vede, non lo coglie l’estasi mistica. Pensa solo che sia un peanut, ovvero una nocciolina. O più genericamente un seed, ovvero un seme. Per lui un pomodorino confit è un pomodoro cooked in the oven, cotto al forno.
E i nomi dei piatti, così poetici nel menu in italiano, tradotti in inglese, perdono gran parte della loro suggestione. Ricordo perfettamente un cliente canadese, che, di fronte a un galletto marinato al coccio, con doratura croccante e purè di patate profumate alla noce moscata disse candidamente che un pollo al forno con le smashed potatoes (ovvero patate schiacciate, il che, a dire il vero, rende l’idea), come quello lo faceva anche sua nonna. Ma -aggiunse- quello della nonna aveva un sapore più speziato. (e, probabilmente, un prezzo più abbordabile).
L’irragionevole venerazione attuale per il ristorante
Hanno ragione loro. Solo nel nostro paese siamo capaci di tributare al cibo questa irragionevole venerazione, che non riserviamo nemmeno alle opere d’arte.
Ci sarà pure un motivo per cui i cuochi sono le rock star dei nostri tempi. Gente che dispone geometricamente i fagiolini nel piatto e per questo si sente Michelangelo. Sospetto che sia perché un Michelangelo vero, questa epoca non lo ha. Il cuoco di ristorante fighetto va in televisione. Lì viene accolto come un profeta, un integralista dell’integrale.
Il culto laico della ristorazione
Lo chef (mai uno che si faccia chiamare col suo vero nome: cuoco!) in TV predica delle virtù del lampredotto, del diaframma, delle animelle. Niente di spirituale: cita solo strane parti di corpi animali di cui ignoravamo l’esistenza. Eppure, siamo onnivori dallo svezzamento. Oppure, mostra la sfilettatura del pesce, come fosse un rituale liturgico. Qualcuno lo chiama: Maestro!
I cuochi, travestiti da Gran Sacerdoti della Religione della Cucina, ci parlano di: burro chiarificato, olio ai profumi del bosco e altre amenità. Mai chiamare le cose con il loro nome. Una specie di antilingua gastronomica. Italo Calvino l’avrebbe stigmatizzata.
D’altro canto, nella nostra epoca atea, materialistica, consumistica, sembra che quello per il cibo sia l’unico culto popolare e trasversale agli stati sociali. Ogni epoca ha la fede che si merita, e la nostra si concentra soprattutto sulla gastronomia.
Intanto, incasso il rifiuto del quarto ristorante. Nessuno ha posto. Toccherà portare il cliente americano in una pizzeria kitsch con le trecce di aglio di plastica sul soffitto? Dovremo raccontargli che è un locale antico, è lì dagli anni sessanta? Mentre rifletto, guardo il sito di uno di questi sacrari della buona tavola. E leggo:
Dress Code del ristorante:
Durante i mesi estivi non sono accettate, ciabatte e pantaloncini corti da mare
Scritto proprio così. Con la virgola dopo il verbo. E questo rimette tutto in ordine. Almeno per me.
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