Il concerto del primo maggio

Vai al blog

I miei articoli:

Il concerto del Primo maggio

Ieri era il primo Maggio, festa di Giuseppe lavoratore, festa dei lavoratori, data del fatidico concerto. Fra le altre cose era il mio compleanno, ma resto umile.

Il concerto del Primo maggio compie trentasei anni. Se li porta bene, o male, a seconda dei punti di vista. Nella mia percezione, questi trentasei anni è come se fossero cento ottanta.

Ho sempre pensato che il concerto fosse sempre esistito. Che lo avessero inventato gli etruschi e i romani. Che lo avessero recepito i longobardi del medio evo e da lì fosse approdato nell’epoca moderna. Sostituendo la musica polifonica medievale con la trap e altri generi contemporanei.

Non ci volevo credere, che il concerto avesse solo trentasei anni. A me pareva che esistesse da sempre. Quando ero ragazza, l’evento centrale del primo maggio era proprio il concerto gratuito a Roma. Attirava folle di giovani e non, e dava spazio alla meglio gioventù (e non) musicale.

Ho sempre sognato di vederlo dal vivo e non l’ho mai fatto. L’ho sempre e solo seguito dal divano. L’opzione divano è stata particolarmente interessante ieri, che Roma era battuta da una pioggia scrosciante. Mi sono messa comoda. Mi aspettavo buona musica. E sono rimasta delusa.

Il concerto delle banalità

In realtà, è andata in onda una grande sequela di banalità. Cominciamo dai cantanti: il concerto del Primo Maggio è sempre stato una manifestazione per cantanti popolarissimi e molto amati. In passate edizioni ricordo nomi importanti: i Subsonica, Max Gazzè Gianna Nannini, Marina Rey, Gabbani, Bennato, Grignani, Ruggeri, la De Sio Zucchero, Irene grandi, Daniele Silvestri, Alex Britti. Non sono mancati ospiti internazionali importanti : Ghallager, Sting, Patty Smith, I Simple minds.

Concerto del Primo maggio o talent show mal riuscito?

Si fatica a riconoscere quell’evento storico, nell’edizione di quest’anno. Definirla in tono minore è generoso. Molti dei cantanti che si sono esibiti ieri, non hanno alle spalle una vera carriera musicale. Al più qualche puntata in un talent show, da cui sono stati buttati fuori ben prima della finale.

Alcuni hanno all’attivo una singola canzone, spesso nemmeno memorabile. Altri, più che cantanti, sono personaggi. Amati da una piccola nicchia di pubblico, specie i giovanissimi. Più fenomeni mediatici, che  artisti.

Il Minestrone mainstream del concerto

Questa musica mediocre, è stata poi inframezzata da monologhi banali. Pieni di slogan. Cose di cui non si sentiva l’esigenza. Frasi fatte e temini delle medie ne sentiamo già troppi: in tutti i telegiornali, sui social e in TV. Da un concerto ti aspetti la musica.

L’impegno sociale, politico o etico, o lo fai seriamente, oppure risulta solo manierismo alla moda, superficialità, retorica.

E i temi di questo concerto sono stati un minestrone male assortito di rivendicazioni sindacali, violenza sulle donne, critiche al mondo della discografia, parità di genere, diritti umani, guerra, antropologia, Iran, fascismo (potrei aver dimenticato qualcosa. Completate a piacere, coi temi più mainstream del momento).

Condurre un concerto non è per tutti

Anche i conduttori sono stati poco rilevanti. Ci vuole personalità, per tenere il palco nove ore, mentre si alternano musicisti e generi diversi, per gestire gli imprevisti tecnici e la pioggia a catinelle, che sicuramente ha penalizzato la scenografia, le coreografie e anche gli outfit di scena.

Qualche cantante non ha rinunciato a un look più stiloso, ma altri sono andati sul palco imbacuccati in giacche a vento e cappellini anti pioggia (non li critico, sono freddolosa, ma non è stato un bel vedere).

Non è da tutti, gestire una situazione del genere. Badare che il concerto live fili liscio e contemporaneamente evitare che i telespettatori a casa si annoino, facciano zapping, vadano a farsi un panino col salame. A questo festival mancava coraggio, intraprendenza, vigore. Oltre che contenuti.

Mosce pure le polemiche: niente di graffiante, trasgressivo, inatteso. Niente di rock. Un puntatone di talent show, senza lustrini, effetti speciali e nemmeno l’adrenalina dell’eliminazione finale.

La fragilità dei giovani

A un certo punto, una delle conduttrici, la più originale, ha fatto un discorso. Anzi, lo ha letto. E finalmente ho trovato qualcosa di vagamente interessante. Ve lo riporto, così non rischio di citarlo imprecisamente.

“Ci dicono sempre ‘non mollare, non ti arrendere, devi farcela’. Siamo figli di questa generazione che ha paura di non farcela”.

Ecco, io qui un poco mi sono intenerita, pensando a questa generazione piena di fragilità. Mai avrei pensato che il concerto del primo maggio mi avrebbe fatto riflettere sulla genitorialità. Alla fragilità dei ragazzi, in buona parte abbiamo contribuito noi adulti, per troppo amore.

Per il nostro insano desiderio di proteggere i figli, di risparmiare loro la gavetta, le delusioni, le bastonate che avevamo provato alla loro età. Perché le batoste temprano il carattere, allenano alla difficoltà, abituano al fallimento.

Noi pensavamo di risparmiare loro il lato duro della vita. Poi ci siamo resi conto che, senza la durezza, i ragazzi non si fanno la scorza. Restano fragili, impauriti, dipendenti da noi.

È come quando vedevi i figli dei nord europei che, gattonando, leccavano il marciapiede, mentre noi ci premuravamo di precedere di un passo i nostri figli, sterilizzando ovunque dovessero passare. Ci sentivamo bravissimi. I genitori dell’anno.

Mica come quegli sciattoni menefreghisti di genitori d’oltralpe. Adesso, vent’anni dopo, i piccoli lecca marciapiede sono diventati dei vichinghi inaffondabili, mentre i nostri figli sono degli scriccioli cagionevoli, pieni di ansie e di senso di inadeguatezza.

L’ingannevole narrazione del fallimento eroico

Il monologo è proseguito, con una riflessione sugli errori:

“Sbagliare non è mai qualcosa di umano, la media deve essere altissima. Invece dovete ricordare che il fallimento è qualcosa di prezioso, ti fa ragionare su quanto credi nel tuo sogno, nella tua forza interiore.

Io lo chiamo desiderio di rivalsa, la cosa più bella che ho. Sapete quanti miei pezzi non sono andati bene? Quanti concerti con 15 persone ho fatto? Quante persone che mi hanno messo i piedi in testa e quanti contest ho perso? Sapete quante volte risuccederà? Spero pochi, ma succederà”.

Ecco, qui sono meno d’accordo. Io odio questa retorica che dipinge l’errore, come evento glorioso. Detesto questa narrazione per cui Bill Gates mollò l’università, Einstein fu bocciato in matematica, Steve Jobs fu licenziato dall’azienda che aveva lui stesso fondato, perciò poi hanno costruito imperi.

Io odio quando citano la frase motivazionale del campione Michal Jordan. Quella che recita: Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento palle, ventisei volte i miei compagni di squadra mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito. Molte, molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto.

No Michael Jordan: tu hai vinto tutto perché sei un grande campione. Ci sono un sacco di signor nessuno che hanno sbagliato più di novemila tiri, trecento palle, ventisei tiri decisivi, e non sono mai usciti dal campionato dilettanti! Molte volte, chi sbaglia il rigore, non sapeva fare meglio di così.

L’errore è un male umano

Non sempre dietro un fallimento c’è la genialità. A volte l’errore è solo una conseguenza della nostra assoluta normalità.

Non c’è niente di eroico negli errori. Né esiste garanzia che chi sbaglia molto, vinca molto. Le due cose non sono collegate. Può essere una idea consolante, lo capisco, che a furia di sbagliare diventeremo campioni. Ma è falso.

A volte continueremo a sbagliare e rimarremo schiappe.

Il fallimento è un fatto della vita. Bisogna farci pace. Accettarlo, non esaltarlo. Non è un dramma, ma nemmeno una figata.

La questione della salvezza

E poi, la conclusione: “Sbagliare è umano e fallire è prezioso. Sarà la vostra ambizione che muoverà il mondo. Credere nei propri sogni salva”.

Ecco, questo no. Questo è abuso semantico della parola “salvezza”. Imprecisione linguistica e spirituale. I sogni non salvano da nulla. I sogni permettono di sperare, di darsi obiettivi, di motivarsi.

Ma la salvezza è un’altra cosa. Una cosa che non ha a che fare con le vittorie o le sconfitte che facciamo su questa terra. Non ha a che fare coi nostri traguardi, coi successi, con le cose che ci conquistiamo su questa terra.

Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano.  Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore. Matteo 6, 19-21

Lo dice anche San Paolo, il mio apostolo preferito:

la tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza, del quale non c’è mai da pentirsi; ma la tristezza del mondo produce la morte. 2 Corinzi 7, 10

la tristezza del mondo ci condanna, e nemmeno i nostri sogni possono salvarci davvero.  

CONCERTO

e qui: https://annaporchetti.it/2023/04/28/a-proposito-di-carita-intervista/

seguimi sul blog: www.AnnaPorchetti.it.

il mio libro si trova qui: https://amzn.to/3VqM5nu