La scomparsa dell’occasione d’uso

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Avete fatto caso alla scomparsa drammatica dell’occasione d’uso? E’ la sparizione più evidente di questo secolo. Domenica, per una serie di circostanze rare, quanto le eclissi di sole e l’allineamento di certi pianeti, ho fatto un giro in Rinascente.

Ho trovato un modello di borsa Furla, in vetrina, tale e quale a quello che indossò la regina Elisabetta nel 1974. Scherzo. Ho appena detto una piccola bugia e una grande verità. La piccola bugia è che la regina Elisabetta non ha mai posseduto una Furla. O, per lo meno, non è mai apparsa in pubblico, sfoggiando una Furla.

La grande verità è che una borsa Furla del 1974 potrebbe essere identica a quelle che vediamo oggi. Furla la sempiterna è sempre identica a sé stessa. Design a garanzia cinquantennale, come le pentole Lagostina.

Ho trovato anche Fendi, i cui nuovi arrivi sono identici ai vecchi evergreen. Un brand che già appare vintage a me. Alle giovani donne di questi tempi, deve sembrare una sorta di reperto archeologico di un’antica civiltà scomparsa. Sono pronta a scommettere che talune generazione Z pensino che il logo ottenuto con la doppia “F” sia una sorta di geroglifico egizio, ancora non decifrato (i più propenderebbero con il tradurlo in: borsa, sacca bisaccia).

Balenciaga invece, sembra creata per questi tempi (pur non essendolo). Balenciaga di oggi è un bluff. Qualcosa di dubbio spessore, come i rapper guru moderni. Oppure, come il design moderno. O come l’arte moderna. Come tutta la modernità appare, se la guardi con occhi disincantati.

Ovvero, il nulla travestito da bello. Una colossale operazione di marketing. Una strategia sintetizzata mirabilmente da Ligabue: “non ho granché da dire ma quello mi viene bene”.  (io lo amo, Ligabue, che si sappia, ma riconosco che non è musica, è folclore). Ecco, la moda iper contemporanea è proprio così.

I brand formali e le occasioni d’uso

In tutto questo, l’unica e grande rivoluzione è Ermenegildo Zegna. Nome impronunciabile già per gli amici madrelingua italiani, Una vera quintessenza di italianità inarrivabile. Mica come un Sergio Rossi e (amo Sergio Rossi), una Miu Miu, un Valentino. Questi brand sono, anche foneticamente, molto più facili, accessibili. Sono suoni che si possono contraffare, con quell’italian sounding che ci fa sanguinare gli occhi e le orecchie all’estero. (Tipici esempi di italian sounding: il parmesan, il nespressp volluto e le borse cinesi di Prapa).

Ermenegildo Zegna no. Contraffare un brand così impronunciabile è un suicidio. Zegna è stata a lungo una delle marche da uomo più distintamente austere di sempre. Fondata nel 1910, l’azienda aveva una vocazione sartoriale e formale.

Adesso, dopo la quotazione in borsa e un cambio nella direzione creativa, in Zegna si fanno sneakers, felpe e cappellini da baseball. Qualcuno parla di “svecchiamento” del brand. Che ci debba adattare a nuovi stili e rinnovare sé stessi è pacifico. Che un brand di vocazione sartoriale si metta a fare cappellini e felpe come un marchio di abbigliamento sportivo qualunque, fa effetto.

Possibile che i compassati gentlemen di una volta, che compravano Zegna forse anche per distinguersi e brillare in eleganza, adesso aspirino a girare vestiti come l’uomo qualunque?

Lo straccione del villaggio

Alla base c’è un fenomeno sempre più evidente: la scomparsa dell’occasione d’uso. Una volta ci chiedevamo: questo abito sarà abbastanza elegante per?

Oggi, al contrario, ci chiediamo più spesso: non sarà troppo elegante per?.

Il senso dell’inadeguatezza si è spostato, ha fatto un giro da 180 gradi. Prima ti preoccupavi di non essere scambiato per lo straccione del villaggio e oggi ti chiedi: oddio, non sembrerò un pazzo che si agghinda a vanvera? Uno che prende la cosa troppo seriamente?

Che sia il dress code lavorativo, l’abbigliamento per la sera, quello per un evento di gala, tutti sembrano preoccupati di attenuare la formalità, combattendo i suoi simboli. Le cravatte sono scomparse, le giacche hanno lasciato il posto ai maglioncini e le donne, sempre più spesso, indossano pantaloni anche di sera.

Senza le occasioni d’uso, siamo sempre meno in sintonia con il contesto. Sembriamo dei passanti, che si sono imbattuti accidentalmente in un evento formale, al quale non erano preparati, essendo probabilmente occupati o destinati a fare altro.

Siamo casual per definizione, ovvero: siamo passati lì quasi per caso, cosa volete da noi? Mica che ci facciamo coinvolgere emotivamente, intellettualmente, psicologicamente da quello che ci circonda?

Il trionfo del casual

Il casual non l’hanno inventato nelle due ultime collezioni autunno inverno. Il casual esiste da sempre. La grande differenza è che mentre prima, l’abbigliamento informale rappresentava solo una delle sfumature di abbigliamento utilizzabili, in certe condizioni, adesso è diventata l’unica immaginabile.

Tanti sembrano non riconoscere più che, a diverse occasioni d’uso, debbano corrispondere stili diversi. Tutto è appiattito sulle scarpe da tennis, i pantaloni con la coulisse in vita, le camicie senza colletto.

Questa, che a molti sembra una conquista, è in realtà un impoverimento. Se la moda è anche modo di esprimersi, l’appiattimento al casual è una limitazione della varietà di espressione. Non si tratta solo di moda. Il trionfo del casual ci dice molto di noi. Della nostra insofferenza per le regole e per il senso del limite. Del nostro bisogno di vivere in una perenne zona di comfort, in cui ogni codice di comportamento, ci appare una intollerabile imposizione.

La ragione per cui il casual imperversa è che viene ritenuto un segno di libertà dalla convenzioni. Come se la sciatteria e la mancanza di criteri fossero sinonimo di libertà.

L’epoca degli scostumati

Per questo, siamo circondati da scostumati, nel senso etimologico del termine. Gli scostumati di oggi sono persone  che non hanno intelligenza sociale. Non sanno più capire quando sia il momento del golf con le trecce o della felpa di pile col cappuccio e quando del doppio petto. Pensano che il jeans, se è nero o grigio, sia omologabile come paio di pantaloni.

Ritengono che lo spezzato sia un abito quasi elegante, e non quello che era fino a un ventennio fa: il massimo compromesso accettabile, in un outfit formale. Essere scostumati era il peggior insulto, all’epoca in cui eravamo ragazzi. Si è perso il concetto stesso di costume, ovvero di quello che è opportuno, socialmente accettabile, adeguato alla situazione.

I canoni, le regole, i registri sono caduti in disuso. Chi li riconosce più? Troppi non sono attrezzati a comprenderli. Figuriamoci a maneggiarli con perizia e comprensione dell’occasione d’uso.

occasione d'uso
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