Orfeo e il baco dello scetticismo
Orfeo è vittima dello scetticismo. Una cosa che praticamente non esisteva ai suoi tempi. Una sorta di sacrilegio, per cui gli dèi lo puniscono gravemente. Non è ateo, Orfeo, né agnostico. E’ perfettamente convinto dell’esistenza degli dèi, degli Inferi e della vita dopo la morte. Ne è così convinto, che, come dice Virgilio, persa la moglie amatissima, decide di andarsela a riprendere. Lì dove sa con certezza di poterla trovare.
Va da Persefone e dal signore dello squallido regno delle ombre (inamena regna umbrarum): Ade. Fa quello che gli riesce meglio: far vibrare la lira. E’ musico e poeta. Oggi diremmo cantautore. E di gran livello. Dice:
«Dèi del mondo sotterraneo, nel quale cadiamo noi tutti che siamo nati mortali, se mi è lecito, se permettete che io, lasciando i meandri del falso, dica la verità, non sono venuto qui per vedere il Tartaro buio o incatenare il triplo collo del mostro meduseo che ha per vello i serpenti; causa del mio viaggio è la mia sposa, su cui una vipera calpestata ha diffuso il suo veleno e ne ha troncato la vita ancora crescente. Avrei voluto essere in grado di sopportare e, non negherò, l’ho tentato, ma Amore ha vinto!»
Orfeo, il grande negoziatore
Non c’è dubbio, Orfeo ci sa fare con le parole. Parla d’amore, del dolore insopportabile della perdita della moglie. Ricorda al dio Ade che ha rapito la propria moglie Persefone per amore.
«Tutti vi siamo dovuti e, dopo un breve indugio, presto o tardi tutti ci affrettiamo alla stessa sede. Qui tutti siamo diretti, questa è la casa ultima: voi tenete il più lungo dominio sul genere umano. Anche lei, quando avrà compiuto un giusto numero d’anni, vi sarà sottoposta: vi chiedo di darmela in prestito e non in dono.»
Orfeo dunque sa già tutto, non va convinto o convertito. Ha le idee molto chiare sul destino umano. Crede nell’aldilà dei greci, che è un posto molto diverso da quello dei cristiani. Intanto, non c’è la prima classe (paradiso), la seconda (purgatorio) e la terza (l’inferno, la terza classe una volta si chiamava anche turistica, ma il turismo, da allora, ha fatto passi avanti col comfort).
Gli Inferi dei greci sono uguali per tutti. Noi ci immaginiamo la vita ultraterrena con una serie di effetti speciali luminosi ed esperienziali: beatitudini e luce e contemplazione del volto di Dio. Gli Inferi greci sono un luogo per nulla accogliente. È buio, è lo sgradevole regno delle ombre. Il volto di Persefone e Ade si vedono benissimo, ma non danno una gran consolazione alle anime. Da Omero in avanti, per tutta l’antichità greca, la vita ultraterrena non sarà un great place to work, per gli uomini. E Virgilio sposa la stessa rappresentazione.
La dilazione della morte
Orfeo se la gioca bene. È un grande negoziatore. Mica dice di rivolere indietro Euridice. Non pretende certo di cambiare le regole. Lui vuole solo che gli concedano una piccola, temporanea eccezione. Dice: datemela in prestito. Lui vuole una dilazione della morte. Permettetele di campare per la durata media di vita, visto che ora è troppo giovane per morire. Tanto poi, noi qua torniamo, non c’è mica pericolo che andiamo altrove!
E poi aggiunge la stoccata finale:
«Se i fati mi negano la grazia per la mia sposa, ho deciso di non tornare: godete la morte di entrambi!»
O la va o la spacca, dice Orfeo. O mi ridate mia moglie, seppure in prestito, in comodato d’uso, a tempo determinato, oppure vi pigliate pure me. Due anime al prezzo di una. Noi non vogliamo separarci.
L’immagine degli sposi che non si separano, è davvero potente. San Paolo lo dirà oltre un secolo dopo, scrivendo agli Efesini, che gli sposi sono uniti da un mistero grande: sono carne della stessa carne. Ma Virgilio lo ha già intuito, che può esistere un vincolo indissolubile, che lega due sposi che si amano. E infatti, il discorso di Orfeo sortisce il suo effetto:
«Mentre così diceva e accompagnava con lo strumento le sue parole, le anime esangui piangevano: Tantalo non cerca più l’acqua fuggente, rimane attonita la ruota di Issione, gli uccelli non mordono il fegato, le nipoti di Belo lasciano l’urne, e tu sedesti sul sasso, Sisifo. Allora per la prima volta dicono, s’inumidirono di lacrime le gote delle Eumenidi, vinte: né la sposa del re del profondo né il re stesso hanno il coraggio di opporre un rifiuto e chiamano Euridice.»
Il patto con la divinità
Tanto fa, dice e canta Orfeo, che alla fine, persino Ade e Persefone si commuovono e gli ridanno la moglie. Ma a una condizione:
«La ricevette Orfeo assieme a una condizione, di non volgere indietro gli occhi finché non fosse uscito dalle valli d’Averno, o il dono sarebbe stato vano.»
Orfeo deve uscire dagli Inferi, seguito da Euridice. Ma deve fidarsi e non guardarsi indietro, per controllare. Nemmeno per un secondo.
Insomma, gli dèi degli Inferi rispondono al suo aut aut con un altro aut aut. A me sembra coerente.
Regole di ingaggio chiare. La moglie te la ridiamo, ma tu ti fidi. E lui non ce la fa. Orfeo fa l’unica cosa da evitare, l’unico errore, in una gestione della crisi fino a quel momento perfetta. Un errore che gli costa carissimo:
«Non erano lontani dalla superficie terrestre, e qui Orfeo, per amore, temendo che non gli venisse a mancare ed avido di vederla, volse indietro gli occhi.»
Euridice scompare. Lui tenta inutilmente di abbracciarla, ma lei ormai è fatta d’aria. Euridice muore di nuovo e questa volta non c’è niente da fare. Orfeo se la prende con gli dèi, invece che con sé stesso. Non comprende, come spesso accade a noi, che la colpa è tutta sua e del suo scetticismo.
L’antico baco umano dello scetticismo
Ma benedetto uomo, già hai avuto la possibilità di scendere nelle profondità dell’Ade da vivo e vedere che tua moglie sta lì. Un po’ zoppicante e con passo incerto – è pur sempre morta per il morso di una vipera- ma insomma, l’hai rivista e sai per certo dove si trovi e con chi. Già mi pare tanta roba, io pagherei dieci anni di vita, per vedere di nuovo mia madre per qualche minuto. Direbbero i romani: stacce. Fattela star bene.
E invece no. Lui vuole di più. Muove i cuori a colpi di cetra e dialettica. Ottiene una concessione da capogiro: riportarsi di là, fra i vivi, la persona che ama. Deve fare una cosa. Una soltanto. Fidarsi della divinità.
Ma lui no, non si fida. Controlla, caso mai gli toccasse cogliere in fallo niente meno che Ade e Persefone. Orfeo non riesce a fare quell’unica cosa che la divinità da sempre chiede all’uomo: affidarsi a lei, crederle, anche contro la logica, anche contro l’evidenza, in quel sublime esercizio di fiducia che è la fede.
Cristianesimo e scetticismo
Questa fede fragile non è una prerogativa pagana, è umana. Ci sono stati scettici pure nelle fila dei cristiani. Il primo di tutti è stato quel tal Tommaso discepolo, detto Didimo. Quello che è passato alla storia per aver voluto controllare di persona che Gesù risorto avesse la ferita al costato e le piaghe alle mani. Vuoi mai che gli avessero mandato una qualche comparsa di Cinecittà, travestita da Messia? Magari per spillargli quattrini o anche solo per fargli uno scherzo?
«Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Giovanni 20, 25
Gesù non la prende sul personale. Non si offende, non gira i tacchi andandosene e sbattendo la porta. Non priva Tommaso di nulla. Invece, senza difficoltà, mostra le prove che Tommaso tanto desidera:
«Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Giovanni 20, 27
Tommaso, di fronte a questo, abbandona il suo scetticismo e finalmente si convince:
«Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Giovanni 20, 28
Di nuovo, Gesù non si accanisce, non lo sgrida, non gli lancia frecciatine sarcastiche. Si limita a riconoscere che, credere senza aver visto, è una prova di fede più profonda:
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Giovanni 20, 29
Questo è Tommaso, in uno dei pochissimi episodi che il quarto Vangelo (e solo quello) gli dedicano. Si fida di quel che vede. Principalmente per quello lo ricordiamo. Per quello è passato alla storia. Certo, beato chi crede senza aver visto.
Orfeo e Tommaso
Orfeo è come Tommaso. A lui non basta che gli dèi degli Inferi gli confermino che la moglie lo segue. Anche lui deve, non dico toccare con mano, ma guardare con gli occhi. E gli dèi sono gente di parola, ma di pazienza coi mortali non ne hanno per nulla, a differenza del Dio dei cristiani. Orfeo non si fida, loro si offendono (gli dèi dell’Olimpo si offendono, si arrabbiano, si vendicano molto spesso) e lo squalificano dalla partita.
Gli dèi non hanno bisogno di Orfeo, mentre Orfeo ha bisogno di loro. Orfeo è tutti noi, noi uomini che fatichiamo a riconoscere questo bisogno. Anche noi cristiani. Fatichiamo a fidarci di Dio e affidarci a lui. Vorremmo dettargli l’agenda, controllarlo, farlo agire secondo la nostra volontà. Spesso senza rispettare la sua. Per fortuna, il Dio dei cristiani è molto misericordioso. Tende sempre una mano agli scettici, vuole averli on board. Vuole arruolarli nelle sue fila.
Pazienza se quelli, all’inizio, di fede ne hanno poca. Meno del minimo sindacale. L’uomo è sempre lo stesso, con la sua fede fragile, con le sue incertezze. Talvolta è arrogante. Quello che cambia, in queste due narrazioni, non è la natura dell’uomo, ma l’amore di Dio.
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