Platone, le foto e l’era della nostalgia

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Non sono un’intellettuale, manco in foto

Avrei voluto fare una foto di quelle artistiche, un po’ intellettuali. Tipo: scrittrice completamente tormentata che compone al computer (ah, le allitterazioni). Invece mi si scheggia lo smalto e vengo sempre e solo fuori sciattona in ogni foto. Tormentata però lo sono comunque.

Mi è venuto in mente questo aspetto strano della vita. Da bambini, pensiamo di non avere niente e invece abbiamo già tutto. Abbiamo una famiglia che ci ama di quell’amore puro e incondizionato che si prova per i bambini, prima che si facciano adulti e deludano chi li ama. Non abbiamo ancora fallimenti da cui riprenderci, solitudini da affrontare. Né delusioni d’amore o debiti col mondo. Non abbiamo niente, ma siamo straordinariamente ricchi.

Non lo saremo mai più altrettanto, nella vita. Col tempo perderemo persone amate, opportunità, fiducia nelle persone e in molti ideali. Perderemo giorni di vita, visto che crescere è invariabilmente far partire il conto alla rovescia. Quindi siamo più ricchi quando non ne siamo consapevoli, quando non possiamo godercelo. Come Adamo ed Eva, che nel Paradiso Terrestre avevano tutto, ma non lo sapevano, non avendo mai sperimentato l’assenza di nulla.

Ecco, questa è la migliore definizione dell’infanzia che so dare. Per lo meno della mia: il non aver mai provato la mancanza di niente. Invece, crescendo, tutta la vita diventa una serie di perdite e di mancanze. La mia è la generazione più incline alla nostalgia. Il passato, specie il nostro, è un feticcio. Come per le giovani generazioni lo è il presente.

La generazione della nostalgia

La mia generazione ha un rapporto e conflittuale con il futuro. Siamo cresciuti ai tempi degli yuppies, col mito del successo, del farcela, del partire dal nulla e arrivare lontano. Siamo partiti dal nulla, ma ora che sappiamo di non essere arrivati lontano quanto speravamo, ci travolge il senso dolente di quello che abbiamo da perdere, visto che ci pare di non avere più molto da guadagnare. Il futuro è stato una terra promessa. Oggi è soprattutto una terra straniera.

Ci muoviamo molto più a nostro agio nel passato, che conosciamo palmo a palmo. Essendo passato, ha il vantaggio di non poter riservare sorprese. Sappiamo già com’è andata a finire, che all’esame più difficile di sempre abbiamo poi preso un bel voto, che il ragazzo che ci piaceva alle medie è sparito, senza che ne nascesse un amore. Guardiamo la foto di classe e sorridiamo: ma guarda come mi vestivo, è incredibile! Ciccio aveva ancora i capelli e caio pesava venti chili di meno! che diamine, Sempronio senza barba a momenti non lo riconoscevo.

Le foto, i ricordi e una qualche forma di misericordia

Sappiamo che abbiamo trovato un lavoro, che ci siamo sposati e innamorati oppure siamo rimasti da soli. Abbiamo avuto dei figli, o non li abbiamo avuti. La nostalgia è un sentimento dolente ma quieto. Il tempo riaccomoda le cose. Sbiadisce i ricordi più dolorosi, colora quelli mediocri. Persino le persone antipatiche, a ricordarle oggi, lo sono un po’ meno.

Tutto è più bello, più indulgente, con il filtro del tempo che è passato. Il ricordo è una forma di misericordia che possono sperimentare tutti, anche quelli che non credono in Dio.

Guardiamo le foto del liceo, dell’università, i noi stessi ventenni, trentenni, quarantenni, in una galleria del tempo che appare una sequenza molto più liscia e ordinata di quando l’abbiamo vissuta. Siamo i morbosi compilatori delle nostre poco avvincenti autobiografie.

Crono, le foto e Monna Lisa

Il resto, lo abbiamo per lo più dimenticato. Delle ore e dei giorni e degli anni passati, tantissimi, a ripensarci, quanti siamo in grado di ricordarne? Eppure, anche tutti gli altri, quelli che non rammentiamo, li abbiamo vissuti. Abbiamo dimenticato le cose brutte, ma anche molte cose belle. Forse non le più belle, ma certo molte cose belle e moltissime così così. Dove sono finiti momenti che sono stati vita e adesso il tempo ha ingoiato?

Dove eravamo il ventisette maggio dell’86, il 7 ottobre del 92, il diciotto marzo del 2007? Da qualche parte saremo stati, ma è inutile cercare di ricordarlo. Di quel passato non ci sono tracce. Anche Crono, che per i greci era il Dio del tempo, divorava i suoi figli.

Per questo, forse, alcuni tengono un diario. E tanti altri fanno foto, migliaia di foto, nell’illusione di non perdere nessun attimo, di crearsi un archivio  che sottragga i ricordi all’oblio. Forse è stato così anche in passato.

Monna Lisa, che aveva qualche soldino, si è subito fatta fare il ritratto, da ser Leonardo da Vinci. Non l’avesse fatto, oggi non sapremmo che è esistita. Noi abbiamo fatto un passo ulteriore. Noi ci scattiamo foto e selfie. Non solo e non tanto per lasciare traccia ai posteri. Lo facciamo soprattutto per sapere che siamo esistiti noi stessi.

Noi non crediamo in Crono. Sappiamo che il tempo non è un Dio, ma una grandezza fisica. Io sono molto fortunata, credo in un Dio che se ti toglie il poco tempo sulla terra, è per dartene uno senza fine, in un’altra vita. Questo è un pensiero dolce e confortante, anche se non annulla il senso di perdita, né la nostalgia di chi o cosa non c’è più.

Platone aveva ragione

Marie Kondo racconta di aver convinto un sacco di casalinghe giapponesi a sbarazzarsi delle foto dei nonni. Album interi di foto di persone morte e sepolte, che occupavano spazio per nulla. L’ultimo, l’estremo ricordo di un passato che non ha più testimoni in vita. Anche le nostre foto, a un certo punto, finiranno in qualche inceneritore?

Non proprio, perché la nostra, che è la cultura dell’immagine, l’ha resa immateriale. Molte delle nostre foto sono caricate da qualche parte: in un server, in un cloud, in un profilo internet. Una sorta di iperuranio platonico, in cui ci sono le nostre effigi ideali.

Infatti, chi ci conosce solo virtualmente, quando ci incontra, spesso fatica a riconoscere in noi quelli delle foto. Ci fissa e non crede ai suoi occhi. Noi siamo l’imperfetta imitazione delle nostre foto profilo, come ogni oggetto materiale è l’imperfetta riproduzione dell’idea archetipo da cui è derivata.

Platone aveva ragione. Alla fine, ha vinto lui. E dire che ai suoi tempi, le foto nemmeno esistevano. Esisteva però la nostalgia, anzi, forse l’ha inventata lui. O, almeno, l’ha resa grande. Quando è diventato uomo, ha sperimentato per la prima volta la perdita e l’assenza. Anzi, forse è diventato uomo, proprio perché ha perso chi amava. E su questo ha costruito vita e pensiero.

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e qui: https://annaporchetti.it/2023/04/28/a-proposito-di-carita-intervista/

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