Restare al nostro posto, sempre e comunque
Cosa vuol dire restare al proprio posto? Lo sto sperimentando in modo particolarmente intenso. Le giornate di questi tempi partono prima dell’alba. Ieri, alle sei meno dieci ero già al computer, giusto in tempo per intercettare i colleghi di Singapore, prima che escano per pranzo. Poi serve smaltire la montagna di mail che si è accumulata nella notte. Io penso che le mail siano come il pane, basta lasciarle al buio qualche ora, che loro crescono e si prendono tutto lo spazio che trovano.
Ho fatto colazione mentre ero in call – non sia mai fare una cosa per volta, specie se una delle due cose è un pasto – così mi sono portata avanti. Tutto per recuperare quel paio d’ore che servono per andare in ospedale con mio marito. Due ore di temibile burocrazia nosocomiale: venti minuti scarsi di terapia e cento minuti di viaggio, parcheggio, accettazione e sala d’attesa.
Restare in purgatorio
Ecco, quando penso al purgatorio io me lo immagino così. Come un grande ospedale in cui, anche se hai l’appuntamento, devi prendere il numero e attendere per ore il tuo turno. Per poi accorgerti che si sono misteriosamente dimenticati di te. Manco fossi fatto d’aria. (O forse no, nostro Signore è molto più misericordioso del Sistema Sanitario nazionale, per nostra fortuna).
Dopo l’ospedale c’è l’annosa quotidiana questione del cibo. Provateci voi, a essere creativi e mettere in tavola due pasti al giorno, senza poter usare: latticini, carne rossa, carboidrati, zuccheri, pomodori, melanzane, peperoni.
Poi sotto a lavorare: ci sono gli europei e, a partire dal dopo pranzo, comincia a svegliarsi anche l’America. Perché il bello (o il brutto) del mercato globale, è che non dorme mai. In qualunque momento della tua giornata, c’è chi ha il fuso orario giusto per lavorare. E per romperti le scatole.
Il pomeriggio passa fra reportistiche e clienti e la nuova specialità olimpica a cui mi alleno quotidianamente: il salto mortale da una call all’altra. Anche due contemporaneamente, nelle zone già raggiunte da questo servizio.
Il secondo lavoro
Alle sette sarebbe ora di chiudere bottega, quand’è che comincia il secondo lavoro: la madre di famiglia. O più probabilmente il primo, a confronto del quale, il lavoro in azienda è un hobby. E dunque si va a fare la spesa e a comprare quelle poche cose che rientrano nella lista dei cibi permessi, con cui inventare qualcosa.
Quanta roba ci sta dentro a un carrello? Tanta, anzi, tantissima. Il carrello è un’unità di misura in cui riesci a farci stare una quantità infinita di barattoli, scatole, bottiglie e altro ancora. Tutto rigorosamente incastrato e a rischio di caduta, dal carrello ormai pieno fino a traboccare.
Ma come? Non avevamo una lista di tre o quattro cose permesse? Eh, si, ma ci siamo lasciati prendere la mano. D’altro canto, la spesa al super mercato è il più fedele surrogato di vita sociale che stia sperimentando da qualche mese. In pratica un hobby, un’attività sportiva, una iniziativa ricreativa. Piuttosto esco con la febbre, ma alla spesa settimanale non rinuncio.
Gli scazzati
Così arrivo alle casse, arrancando e trascinando il famoso carrello, che è quattro volte il mio peso. Con l’occhio allenato misuro la lunghezza delle code, la velocità di avanzamento, il grado di riempimento dei carrelli.
L’algoritmo di mia invenzione ha elaborato un sistema di calcolo puntuale, che mi permette di scegliere la cassa più veloce. E quindi la individuiamo e decidiamo di restare lì. In apparenza. Perché, sappiatelo, la cassa con meno coda non è la più veloce. Talvolta è la più lenta.
Ed è così che finisco nelle grinfie della cassiera che aveva altri desideri e ambizioni nella vita, invece si trova intrappolata in questo ruolo poco gratificante. Il destino l’ha trasformata in questa strana creatura mitologica: metà donna e metà nastro scorrevole. Di qui in avanti, per praticità, la definiremo: la scazzata.
La scazzata è lì, ma tutto di lei racconta che vorrebbe essere altrove. Anzi, più che raccontarlo lo urla. La scazzata lancia evidenti segnali intimidatori a chiunque cerchi di avvicinarsi a lei, per aumentare il suo lavoro. Infatti, la scazzata guarda in cagnesco i clienti che si sono messi in fila alla sua cassa. Invece di accelerare, lei rallenta. Al punto che ogni nuovo cliente vede la lentezza di quella cassa e si mette in coda altrove.
Per questo, la cassa della scazzata, benché abbia la fila più corta, viene evitata come la peste. Lei passa i prodotti uno alla volta, con lentezza. Straluna gli occhi ogni volta che lo scanner non legge il codice a barre, risponde a monosillabi a qualunque domanda dei clienti, finge sempre di dimenticarsi di dare punti e bollini per le raccolte.
L’importanza di restare dove siamo
In una parola, la scazzata si comporta come se quello di cassiera, invece che il suo lavoro, fosse una specie di favore personale che fa alla comunità. Come se volesse andarsene e invece le toccasse restare. Una generosità facoltativa, di cui è bene non abusare. Un favore da meritarsi con gentilezza straordinaria.
Ovviamente, la scazzata non è solo la cassiera del supermercato. Il mondo è pieno di scazzate e di scazzati, in ogni angolo. Il collega scazzato, che deve essere quasi supplicato, per fare quello per cui lo pagano. L’infermiera scazzata, che sembra considerare ogni necessità del paziente come un dispetto fatto a lei personalmente. Il giornalaio scazzato che devi pregare perché ti metta via l’inserto del giornale il giovedì, come se lui fosse in edicola a fare altro, e tu andassi a rompergli le scatole con richieste assurde.
E lo capisco che a volte ci troviamo a fare cose che non ci piacciono un granché. Ma ha senso farle comunque. Anzi, farle di buon grado.
«Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli» (Matteo 7,21).
Perché il Signore ha un piano per ciascuno di noi. Non ci chiede di salvare il mondo o risolvere ogni problema. Invece, vuole che restiamo esattamente dove siamo. Ci chiede di stare dentro a questo mondo e a questi problemi.
Non c’è spazio per lo scazzamento. Per lo meno, non a lungo termine. Va bene svegliarsi di cattivo umore o sentirsi in rotta col mondo, ma solo ogni tanto. Non può essere la nostra cifra esistenziale. Non si può reagire così alla vita, perché siamo qui per un motivo e per la Sua volontà, che porterà a qualcosa di buono.
«guardate dunque con diligenza a come vi comportate; non da stolti, ma da saggi; ricuperando il tempo perché i giorni sono malvagi. Perciò non agite con leggerezza, ma cercate di ben capire quale sia la volontà del Signore » (Ef 5, 15-17).
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