C’è vita sulla terra?
Oggi è la giornata della vita, per questo, pur essendo domenica, ho deciso di scrivere i miei pensieri. So che stareste bene anche senza, e poi, mi ero presa tempo fa l’impegno di non scrivere nei fine settimana, per dedicarmi alla famiglia. Ma il tema è dei più importanti. Oggi è la giornata della vita, dicevamo. A che punto siamo con la vita umana?
Qualche giorno fa leggevo un articolo apparso su alcune testate giornalistiche digitali. Una donna, caduta in profonda depressione per la morte prematura di un figlio, ha scelto di suicidarsi in svizzera. Al marito non ha detto nulla. L’uomo ha appreso della decisione della moglie solo a cose fatte. Qualche giorno dopo, ha ricevuto una mail della clinica svizzera in cui sua moglie ha deciso di porre fine ai suoi giorni.
Un evento di questo tipo ci mette di fronte a interrogativi. Non voglio soffermarmi sulla storia personale di questa madre e di questa famiglia, il cui dolore rispetto e non mi permetto di giudicare. Quello che mi interessa è riflettere in generale sul valore che diamo alla vita. Sul nostro desiderio di poterne disporre completamente e di farne quello che vogliamo. Nel bene e nel male.
Cultura della vita o cultura della morte?
Una delle pochissime certezze che l’uomo ha -ogni uomo- è che prima o poi morirà. Questo non ha a che vedere con la cultura, la provenienza geografica, l’origine etnica, la religione. La vita è un intervallo finito. Prima di essa e dopo la morte non ci siamo più. Per lo meno, non siamo più su questa terra. Su quello che accade di noi dopo, il dibattito è sempre aperto. E non si chiuderà facilmente.
Per chi, come me, è credente, la vita su questa terra è un passaggio verso una esistenza più piena, eterna, al cospetto di Dio. Una prospettiva molto affascinante. Non al punto di rendere superflua la vita su questa terra. C’è stata un’epoca, nel cristianesimo antico, in cui i fedeli tenevano in pochissima considerazione la vita terrena. Tutta la loro attenzione era rivolta alla vita dopo la morte, a conquistarsi la salvezza eterna.
Oggi, nella nostra epoca, noi credenti ancora desideriamo conquistarci la salvezza. Non di meno, la vita terrena è per noi una cosa importante, vorremmo viverla bene. Essere amati, essere felici. Talvolta rischiamo però di comportarci come se fosse tutta qui. Come se le nostre sensazioni e il nostro benessere fossero l’unica cosa che conta.
L’uomo di fronte alla morte
La morte ha sempre fatto parte della vita umana. Ne rappresenta l’epilogo, l’approdo. La morte è il passaggio ad altro o al nulla, a seconda di quello in cui si crede. Eppure, né la vita né la morte ci appartengono, malgrado le viviamo. La medicina moderna ci ha illusi di poter disporre di noi stessi, secondo le nostre convinzioni e i nostri desideri. O talvolta i desideri e le convinzioni altrui.
Avviene così che, come per Charlie Guard e la piccola Indie, qualcun altro decida che ci sono vite che valgono poco, persone che non è importante curare, perché la qualità della vita a cui sono destinate, non è di livello accettabile. Un giorno accadrà – in alcune parti del mondo già accade – che alla decisione di curare o no, concorreranno anche elementi economici. Ci saranno vite che è troppo costoso salvare. Vite che non valgono cure a caro prezzo. Meglio far posto ad altri, che hanno migliori condizioni di salute e ripresa. O che possono ancora contribuire produttivamente nella società.
Se siamo autorizzati a terminare arbitrariamente la nostra vita, per motivi che a noi sembrano soggettivamente giusti, allora nessuno è più al sicuro. Se la vita non è un valore sacro, da tutelare a qualunque costo, allora inevitabilmente ci saranno vite che non valgono nulla. Ci sarà chi riceverà cure migliori e chi sarà lasciato morire. Non ci sarà uguale accesso alle cure. Non ci saranno speranze di vita uguali per tutti.
La questione nasce dall’aborto
Oggi, nella giornata della vita, è inevitabile pensare che la ragione di tutto questo relativismo derivi dalla liberalizzazione dell’aborto. Nel momento in cui una società si attrezza per terminare delle vite senza che ci sia necessariamente un motivo, la conseguenza pratica è che la vita non ha più un valore assoluto. Ha valore solo nella misura in cui le circostanze la rendono una vita bene accetta. Se i genitori vogliono realmente avere il figlio, se se lo possono permettere, se il momento è buono oppure no.
Se la vita valesse abbastanza di per sé, a prescindere dalle circostanze, allora per il bambino venuto al mondo si troverebbe comunque una soluzione. Che fosse aiuto alla famiglia d’origine o adozione. Gli aspetti pratici passerebbero in secondo piano, rispetto all’interesse prevalente da tutelare: la vita.
Invece, poiché la vita vale il valore che siamo disposti a riconoscerle, finisce spesso per essere meno importante dei problemi pratici che pone. Il reddito non è sufficiente? I futuri genitori si sono lasciati (o non sono mai stati insieme)? La madre decide che non se la sente di crescere un figlio? Allora questa vita viene subordinata alle scelte degli altri, a quello che per loro ha più valore. Nella scala di priorità, la vita, invece di occupare il primo posto che le spetta, si colloca laddove non dà fastidio a nessuno.
È chiaro che affermiamo il principio che la vita non è importante in generale, ma sono in alcune circostanze, allora siamo più disposti a sbarazzarci di un malato che ci crea difficoltà. O a terminare la nostra stessa vita, se ci procura sofferenze intollerabili.
La sacralità della vita umana
La vita è un dono che abbiamo ricevuto senza merito. Questo non significa che sarà sempre facile vivere. Ci saranno momenti di difficoltà, di crisi, di dolore. Così è sempre stato e così sarà sempre. Solo i bambini possono illudersi che la vita possa essere rose e fiori e non presentare mai un problema. Eppure, nella cultura occidentale attuale, gli adulti guardano alla vita con la sprovvedutezza dei bambini. Non sono attrezzati psicologicamente per affrontare il dolore o la malattia.
Ecco che la morte procurata diventa l’antidoto al male del vivere. La chiamano “eutanasia”. Ovvero morte buona. Per distinguerla da quella cattiva, ovvero la morte naturale. La morte che arriva spontaneamente, quando l’arco della nostra vita si è compiuto.
L’eutanasia e il mito della morte buona
Questa dell’eutanasia è un contorsionismo psicologico in base al quale, per prevenire il dolore, preferiamo morire. Per evitare un male più piccolo, accettiamo un male grandissimo. Eppure ci pare preferibile, addirittura più dignitoso, morire, che vivere la vita in tutta la sua pienezza. Pienezza che prevede tutto intero lo spettro della vita, nel bene e nel male.
Purché la morte procurata sia ovattata, indolore, edulcorata dalla tecnologia medica e asettica come le cliniche svizzere in cui si pratica. Luoghi ormai avvolti dalla mitologia della buona morte, esempi di pulizia, discrezione ed efficienza.
Eppure, siamo figli del padre, fratelli di Cristo. Siamo seguaci del Dio uomo che si è fatto crocifiggere. Non ha chiesto una iniezione letale o un qualche altro metodo per morire in modo semplice e veloce. Senza quasi rendersene conto. Ha invece affrontato la sua passione ed ha vinto la morte. Ha sparso il suo sangue per rendere il nostro degno di salvezza.
Valiamo il sangue di Cristo. Eppure vorremmo terminare questa vita, dono reso così prezioso dal sacrificio di Gesù, come se fosse una nostra proprietà. Qualcosa che teniamo ma solo finché decidiamo che sia degna di essere vissuta. Dopo vorremmo potercene disfare. E vorremmo, com’è per l’aborto, che questa decisione venisse accettata, applaudita, considerata meritoria.
Nella giornata della vita, solo questo sarebbe importante: capire che la vita e la morte arrivano da Dio e non ci appartengono.
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