Ma ho anche dei difetti
“Quali sono i suoi difetti?” qualcuno ve lo ha mai chiesto? A me sì. Nella mia vita professionale ormai quasi trentennale, ho fatto diversi colloqui. Alcuni da intervistatrice. Molti di più da intervistata. Ora, i colloqui rischiano talvolta di farti cadere le braccia. Capisco che non sia facile fare domande intelligenti. In generale. Figurati poi se si ha il compito, in un’ora, di sondare le più profonde inclinazioni di un essere umano. E per farlo hai a disposizione solo un numero finito di domande strampalate a piacere.
Per questo, i colloqui sono spesso tragedie, quando non sono farse. Ci si può sentir chiedere qualunque cosa. Dalla professione dei genitori, al tipo di vacanza preferita. Ci sono i selezionatori marzulliani. Quelli che ti chiedono quale sia stata l’esperienza più bella della tua vita e perché. Gli altri che ti chiedono che cosa non rifaresti nella vita, se potessi tornare indietro.
Io qui, di solito non ho dubbi: al primo posto ci va la permanente fatta in seconda liceo. Sembravo un cespuglio di gramigna. Ma pure i miei primi esperimenti con la pinzetta delle sopracciglia sono una cosa che non rifarei. E i viaggi in treno Milano Taranto in piedi. Dodici o più ore a bivaccare in corridoio, sedendosi per terra, quando proprio non ce la si faceva più. Perché adesso non ce lo ricordiamo, ma c’è stata un’epoca in cui non necessariamente un biglietto dava diritto a un posto a sedere.
A parte queste e poche altre cose, io rifarei tutto. Anche gli errori. In fondo hanno contribuito anch’essi a fare di me la persona che sono. Forse anche più di tante altre cose fatte bene.
Sondare i difetti
Ma fra le domande dei colloqui, ce n’è una che odio più delle altre. Se un giorno si potesse votare per eliminare le domande più bislacche dai colloqui, io la eleggerei la: “mai più con”.
L’intervistatore, uomo o donna che sia, ti guarda dritto negli occhi. E spara la bomba. “mi parli dei suoi difetti”. E poi rimane così, con un sorriso vagamente ebete. Una cosa del tipo: “eh, guarda quanto sono furbo, guarda che domandona che ti ho fatto! Adesso ti becco in castagna”.
E tu, dal canto tuo, non hai alcuna voglia di rispondere. Perché, se fossimo in un poliziesco di quelli fatti bene, con una sceneggiatura scritta da gente erudita, nessuno metterebbe in bocca al commissario di turno una frase scema come: “mi parli dei motivi che aveva per odiare a morte la vittima”.
E no, diamine. Col cavolo che l’indiziato ti fornisce l’elenco dei suoi moventi. Oppure svela i suoi difetti. Sarebbe come arrendersi al nemico, consegnando le armi. Mettersi completamente nelle sue mani. Se ti rivelo il movente, o i miei difetti, so che tutto quello che ti ho detto sarà usato contro di me. E no, che non te li voglio rivelare i miei difetti. Fossi matta. Scoprili da te, se sei un vero guru delle risorse umane (o un vero ispettore da telefilm).
Le manovre diversive
Purtroppo non puoi mandare al diavolo il selezionatore. Né dirgli che ha fatto una domanda da beota! Invece, devi tenere botta. Perché tu il lavoro lo vuoi. E sai che la cosa che si può mettere di mezzo fra te e il posto per cui ti sei proposto, ha la forma e la favella di un selezionatore scemo. Uno che ha letto troppi manuali da autogrill che lo fanno sentire furbissimo.
Gli fanno credere che per smascherare un fancazzista, un disonesto, un tontolone basti chiederglielo. Come se al commissario Tal de’ Tali bastasse chiedere all’indiziato: è lei l’assassino? E quello confessasse seduta stante.
“Parlami dei tuoi difetti”. E il candidato dovrebbe sciorinare che ha intenzione di allungare le ferie a colpi di certificati di malattia.
Dovrebbe confessare non rispetta mai le scadenze, perché in orario di lavoro legge l’oroscopo o gioca a poker sul computer. O messaggia le tipe su Tinder. Oppure ammettere che oggi si è fatto la doccia per il colloquio. Ma, di solito, la sua igiene personale lascia un po’ a desiderare. Infatti, dove lavora adesso, i colleghi gli hanno affibbiato un simpatico nomignolo: puzzola.
Ovviamente, nessuno ha la più pallida intenzione di ammettere con sincerità i propri difetti. E per questo si ricorre a manovre diversive.
Gli zerodifetti
Nessuno sarebbe credibile, se dichiarasse di non avere difetti. Qualcosa bisogna pur dire. Bisogna dare un difettuccio in pasto al selezionatore. Ma uno piccolo piccolo. Difetti che quasi quasi sono pregi. Tutto, meno che la verità. E allora si mente, spudoratamente. Si mente sapendo di mentire.
“Sono troppo attaccato al mio lavoro”. Dice quello che, una volta assunto, sosterà ogni giorno davanti alla timbratrice, con addosso già il cappotto, dieci minuti prima dell’orario.
“sono troppo generoso coi colleghi” Sussurrerà poi chi, a distanza di pochi mesi, sarà catalogato come il più infame dell’ufficio.
“prendo tutto molto sul serio” dirà colui che si rivelerà uno dei più grandi lavativi della storia. Insomma, questa cosa di domandare alla gente dei suoi difetti non funziona mai. Perché continuate a chiederla?
In questi casi, i candidati hanno imparato a prendere dei pregi e a fingere che siano difetti. Secondo loro, l’intervistatore penserà: “accipicchia! Se questi sono i suoi difetti, siamo a cavallo!”.
Gli unici che non mentono sono quelli che dicono di essere perfezionisti. Perché il perfezionismo è un difetto vero. Anche se, nel mondo del lavoro, spesso viene scambiato per una qualità. Ma i selezionatori, sui manuali degli autogrill, hanno letto che l’essere perfezionisti non è un male. Anzi. Più i dipendenti si incarogniscono con l’idea di perfezione, meglio è.
Invece il perfezionismo è una sciagura. Perché la perfezione -quella vera – è un attributo del divino. Non dell’umano. Il vero essere perfetto è Lui. Noialtri siamo tutti praticoni.
Il perfezionista crede che le sorti del mondo siano sulle sue spalle. Come se tutto dipendesse solo da lui. Da quanto riesce ad avvicinarsi alla sua idea di perfezione. La ricerca di perfezione è l’esperienza più frustrante della vita. Perché è destinata al fallimento perenne.
Siamo le nostre fragilità
Il perfezionismo ci porta alla superbia, ma anche alla delusione. Perché, per quanto ci sforziamo, la perfezione sarà sempre lontana. Il perfezionista non sa accettare la sua fragilità. Tenta di combatterla, invece di abbracciarla e farci pace.
Pensa che il risultato dipenda solo da lui. Il perfezionista proclama di credere in sé stesso, di piacersi, di potercela fare. Ha un linguaggio para militaresco. Dice che affronta le sfide, vince le battaglie, sconfigge le difficoltà. E invece è solo un essere umano imperfetto, con una profonda, inguaribile nostalgia di Dio.
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