La sindrome della spora
Come affrontiamo i momenti difficili? Ci sono due atteggiamenti contrapposti. Da un lato, coloro che si mantengono in tutto e per tutto fedeli a sé stessi, alle proprie idee e abitudini. Sono come i sempreverdi. Non importa che sia estate o inverno, caldo o freddo. Loro mantengono il fogliame tale e quale, sfidando le avversità.
E poi quelli come me, che nelle difficoltà assumono la modalità “spora”. Sapete cosa sono le spore? I biologi le chiamano: “forme di resistenza”. Sono come dei semini, in cui alcune creature viventi si trasformano, quando si trovano in ambienti ostili. In quella forma riescono a sopravvivere a lungo, in circostanze che normalmente non sarebbero compatibili con la vita. Si disidratano, si mettono in uno stato dormiente. Risparmiano le energie e cercano solo di sopravvivere.
Quando si ripristinano le condizioni di vita ideali, la spora germina. Torna alla sua pienezza di forma di vita. La spora resiste chiudendosi in sé e vivendo col minimo sindacale. Il sempreverde resiste, continuando a lussureggiare.
Ci pensavo proprio ieri, che in reparto ho visto una signora, in visita al marito, nel nostro stesso ospedale. Lei era la classica sempreverde. Con gli orecchini, il trucco, i capelli freschi di piega. Ecco, io le ammiro le persone sempreverdi. Io, in compenso, quando mi sono guardata nello specchio dell’ascensore dell’ospedale, mi sono quasi spaventata. Chi era quella creatura coi capelli arruffati? Con la pelle grigiognola e le occhiaie blu?
Poi mi sono resa conto che dovevo essere io. Io in versione spora: mi ero dimenticata di pettinarmi. Non mi ero truccata e non avevo nemmeno messo una goccia di siero idratante. Quella ero io, in una delle mie più riuscite forme di espressione: la spora.
Spora si nasce o si diventa?
Io ho questa caratteristica: nelle crisi regredisco allo stadio di spora. Perdo letteralmente interesse per qualunque cosa. Serro i ranghi, abbasso il consumo energetico (anche mentale) e tento di resistere. Al prezzo di importantissime deroghe su me stessa. In un periodo sporesco della mia giovinezza, avevo perso alcuni chili, perché mi dimenticavo di mangiare.
E non importa che mia nonna -sempreverde da manuale- mi facesse predicozzi infiniti sull’importanza di non lasciarsi andare. Alla fine si era arresa anche lei. Spora si nasce e io, modestamente, lo nacqui, come direbbe Totò.
Per quelle come me, è facile vestirsi, truccarsi, pettinarsi, quando va tutto bene. Quando non ci sono momenti difficili, c’è la disposizione d’animo lieta e la voglia di gratificarsi. È invece immensamente più difficile -quasi impossibile – quando manca la serenità.
La resistenza nella fede
È così anche per la fede. È più facile credere, quando va tutto bene. Quando ti sembra di ricevere immensi doni. Quando nulla ti turba, nulla si pone fra te e i tuoi desideri. Se pare che le cose vadano alla grande. Lì la fede sgorga spontanea, è un frutto della gratitudine.
Invece, nei momenti difficili, c’è sempre la tentazione di chiedersi: Perché Signore, perché proprio a me? Perché mi sottoponi a una prova? E persino: perché mi punisci? Perché io, Signore, quando c’è il mio vicino di casa che non paga il condominio da due anni e risulta nullatenente, e invece lavora al nero? Perché non la collega che ha una relazione extraconiugale di dominio (quasi pubblico)? Perché non Tizio e Caio, loro sì che sono cattivi. Che ti ho fatto di male, Signore? Cosa ho fatto di così brutto, per meritare questa punizione?
Ecco, questa è la tentazione della spora spirituale. La persona che si chiude, quasi si disidrata spiritualmente. L’anima ti si iberna, diventa insensibile, fino a che la situazione migliora e allora ricominci a sperare e a prosperare.
La vera fede
Invece la vera fede è il contrario della sindrome della spora. È restare sempreverde anche nel dolore. Accogliere la propria fragilità. Imparare a starci dentro, senza aspettarsi che la burrasca passi subito. Senza porre condizioni a Dio. Senza intavolare quelle trattative commerciali: però, Signore, se tu mi dimostri la tua misericordia, allora io poi ti prometto che…
Il sempreverde nella fede ricorda le parole di San Paolo: «Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno». (Rm 8,28). Che vuol dire che alla fine andrà tutto bene. Ma non necessariamente ci sarà un lieto fine. Perché il disegno di Dio non è il copione cinematografico di una commedia.
Il sempreverde questo lo sa, la spora no. O meglio, lo sa anche la spora, ma non riesce a viverlo davvero. La spora sotto sotto spera che il bene di Dio somigli un po’ a quello che per lei è bene. La spora – io lo sono- quando pensa a Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!». In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto». (Giobbe 1, 21-22) trasecola. E si dice: Ma come il signore ha tolto? Signore, ti prego, non togliermi quello che amo.
La fede non è masochismo
La spora si chiude in sé stessa, nel suo egoismo. Il sempreverde fiorisce in Dio. Ma il sempreverde non è masochista. La vera fede è quella di Gesù: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!» Perché anche il sempreverde, come la spora, vuole, chiede e spera.
Ma, a differenza della spora, poi sa dire: «Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Lc 22, 42 Anche il sempreverde prova dolore. Però ha la forza di accettare che il piano di Dio su di noi può prevedere anche ciò che non vogliamo.
Sa che non si può scegliere. Non è il menù del ristorante! Il piano di Dio agisce come serve. Ci può porre di fronte a sfide che non sappiamo affrontare. A sconfitte che temiamo. Se il terreno dove cresce la spora è la paura, quella in cui prolifera il sempreverde è la speranza. D’altro canto, se il verde è proprio il colore della speranza, ci sarà un perché. Per questo sono una spora, che studia da sempreverde.
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