La trasferta è un bel posto
La trasferta è un bel posto, ma non ci vivrei. Eppure l’ho vissuta. Tutt’ora la vivo. Anzi, c’è stato un periodo della mia vita in cui abitavo la trasferta come normalità. Quando ho cominciato a trasfertare (non so se si dica così? Esiste un verbo per dire che sei in trasferta? Facciamo finta di sì).
Ho cominciato 20 anni fa e il mondo era un pianeta diverso. Certo, viaggiare non era come mettersi in mare con le 3 caravelle (con buona pace delle mie figlie, che se lo immaginano così). Però un bel po’ di cose sono cambiate da allora. Ai tempi, la trasferta era un viaggio della speranza, fra aerei che volavano tre giorni alla settimana e treni che non capivi mai da dove prendere. Poi arrivavi in hotel così anonimi, che al risveglio dovevi sforzarti di ricordare dove fossi.
Vent’anni di connessioni assenti, di risvegli all’alba, di arrivi nel cuore della notte. Vent’anni di pranzi saltati e cene che non rimpiango, di migliaia di chilometri avanti e indietro, di paesi, lingue e bandiere.
Viaggiare per lavoro è una strana sensazione. Vai in posti che non scegli, con compagnie non sempre piacevoli. E quando qualcosa va storto -qualcosa in trasferta va sempre storto – non hai nemmeno l’attenuante psicologica dell’essere in vacanza.
Bello e brutto della trasferta
Ultimi voli della giornata cancellati, voli rientrati all’aeroporto d’origine dopo tre ore di volo, voli evacuati: è successo tutto quel che poteva succedere, incluso quel matto che quella volta aveva cominciato a tempestarti di domande e a vaneggiare dei destini globali nelle mani dei signori del mondo al servizio delle lobby malefiche. All’epoca ti era sembrato poco più che un mitomane.
Il fatto è che la mitomania dopo si è diffusa. È questa la vera emergenza pandemica: questa folla di complottisti dalla sbrigliata fantasia e le manie di persecuzione. Tuttavia, questo fa parte del pacchetto, perché la trasferta è una realtà in cui non scegli quasi nulla e anche quello che credevi di aver scelto, quello su cui contavi, non è detto che ci sia e che sia come te lo immaginavi.
Viaggi brevi, viaggi lunghi, tutti cominciano con una sensazione di estraneità. È la fatica di uscire dalla tua vita, anche se solo per poco. Poi ti ci abitui. Ci stai bene, persino. Arriva il momento di rientrare. E non dico che ti dispiaccia (non esageriamo), ma qualcosa la perdi, una piccola, piccolissima parte di te muore, alla fine di ogni trasferta.
Il viaggio è scoperta ed esplorazione, prima di tutto di sé stessi.
Forse può sembrare un azzardo, dire che un poco di te muore, a ogni rientro. Quel poco di te che hai scoperto in quelle circostanze. Non torni mai quella che eri partita, ci sono queste nuove consapevolezze che ti travolgono e ti spiazzano, quando ti credevi di poter tenere tutto sotto controllo, non solo le sorti della trasferta, ma persino le tue emozioni.
Ti affezioni a quella idea dei mille mondi possibili alle mille versioni di te che avresti potuto essere.
In quella bolla spazio temporale che sospende la tua vera realtà, una bolla in cui non sei più interamente tu, puoi e talvolta devi esplorare angoli di te che non hai mai frequentato e che forse, oltre a sorprenderti, non ti dispiacciono.
Le non vite
Augé ha parlato di non luoghi, quegli spazi contrapposti ai luoghi antropologici, quindi tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici.
Detta così sembra molto più oscura di quello che è. D’altra parte è il loro mestiere, quello dei filosofi. Da Eraclito in poi hanno capito che l’essere oscuri faceva parte del mansionario. Detto in modo un po’ più semplice, come farebbe la categoria delle casalinghe meridionali imbruttite, a cui fieramente appartengo, significa solo: luogo privo di un’identità, quindi anonimo, privo di qualsiasi rapporto con il contorno sociale, con una tradizione, con una storia.
La trasferta, i non luoghi, la vertigine dell’irresponsabilità
Se Augé è diventato famoso per aver coniato questa espressione: “non luoghi” (ci ha pure scritto un libro!), io vorrei tentare la strada di coniare l’espressione “non vite” per quel che accade in trasferta.
Sono non vite, vite che potrebbero essere di chiunque, ovunque, ma certamente non tue. Prive di qualsiasi rapporto con il tuo contesto sociale, la tua storia, le tue abitudini e tradizioni (adesso non sperate che ci scriva su un libro!).
Vite (o “non vite”) in cui finisci di lavorare e puoi andare al ristorante, ordinare quel che vuoi, gambe sotto il tavolo, col cameriere che ti riempie finanche il bicchiere. E poi puoi passeggiare per una città che non conosci, che vuole offrirti il meglio di sé. Oppure rifugiarti in camera, guardare la televisione, persino riempire la vasca e farti un bagno. Tutte cose che nella tua vita vera sono per lo meno complicate. Invece in trasferta, nella tua non vita, sperimenti per brevissimo tempo la vertigine di non avere responsabilità nei confronti di nessuno, salvo te stesso.
Una vertigine che, certo, tutti i giorni ti farebbe svenire, ma una volta ogni tanto funziona come un bicchiere di buon vino, ti dà una ebbrezza piacevole e innocua, che tanto poi passa.
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