La tazza ammaccata e la precarietà della vita

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La tazza ammaccata

Ho salvato la mia tazza ammaccata. Ieri mi sono svegliata con quell’ombra di sonno comatoso e quella voglia di fare una beata mazza, tipico del post trasferte impegnative. Quelle in cui vorresti svegliarti di sabato e invece è ancora solo giovedì. Hai davanti tante cose da fare e ti pare ti manchi la forza per farle. Perché ormai sei invecchiata. E comunque fuori fa freddo. L’autunno sta arrivando implacabile, presto sarà inverno. Chi ha voglia di darsi da fare, in inverno?

La cosa più significativa della mattinata, forse dell’intera giornata, è stata che ho salvato la tazza ammaccata. Io ho una collezione di tazze di Starbucks. Sì, lo so, collezionare qualunque cosa: francobolli, figurine, bottiglie di birra o tazze da cappuccino è un’abitudine sconsiderata. Un hobby per bambini o per vecchie signore. E io non sono più bambina, né mi sento più vecchia signora.

Ma tant’è. Questa è la società del consumo e dell’accumulo di tutto quello che non si consuma. A dire il vero, le mie tazze di Starbucks, comprata ciascuna in una città diversa (ne ho dell’Europa, della Cina, dell’America) un po’ alla volta si stanno consumando davvero. Hanno preso urti e cadute.

Una in particolare, che è fra le mie preferite, cadendo ha rotto completamente il manico. Mi è venuto un colpo, quella volta. É vero che é solo una tazza, ma poi pensavo: accipicchia, se la rompo, mi tocca andare fino in capo al mondo per ricomprarla. E poi ho cercato di consolarmi: in fondo è solo una tazza, puoi vivere benissimo senza. Fatto sta che, ieri, in quella mattinata in cui avevo molto da fare e non molta voglia di farlo, ho deciso di iniziare la giornata con una tazza di caffelatte. Rigorosamente nella mia tazza ammaccata preferita.

Una tazza ammaccata per una giornata ammaccata

In fondo era perfetto: un caffellatte in una tazza ammaccata per cominciare una giornata ammaccata. Davvero sembra una idea perspicace, vorrei averla avuta io. Vorrei prendermene il merito, ma non posso: in realtà ho solo afferrato la tazza ammaccata e l’ho riempita, senza altri pensieri. Tutta la poesia (se poesia è) ce la sto ricamando attorno adesso, a posteriori. Quindi non vale.

Poi mi sono alzata, determinata a cominciare a lavorare. Ho colpito inavvertitamente la tazza semivuota, facendola volare. Con una prontezza di riflessi che non pensavo di avere, l’ho afferrata al volo, prima che cadesse per terra. Unico danno collaterale, le gocce di caffellatte schizzate in giro, sulla sedia, il tavolo e il pavimento. Incredula, con la tazza ammaccata, ma ancora tutta intera, ho provato un grande sollievo.

I miei pensieri sono stati: ce l’ho fatta! Pensa che rischio che ho corso. Accidenti, l’avessi rotta, mi sarebbe toccato andare a ricomprarla fino a… (e ho controllato la località sulla tazza, giusto per dire quanto conosca davvero una tazza ammaccata che definisco la mia preferita). Ma più che le parole, mi hanno colpito le mie sensazioni. La gioia, il conforto, persino l’allegria di chi è scampato in modo miracoloso a un guaio che dava già come inevitabile.

Il complesso del sopravvissuto

É stato lì che i miei due neuroni, ancora abbastanza provati dalla trasferta, hanno provato un brivido. Lì mi sono detta che in fondo è proprio così. Sono una persona ammaccata che inizia una giornata ammaccata e si sente come quella tazza che ha appena evitato l’impatto col pavimento. Si sente come una sopravvissuta. In quel caso, malgrado i tuoi problemi, che sono ancora tutti lì, esattamente dove li hai lasciati, ti senti improvvisamente, irragionevolmente felice.

Piena di gratitudine, perché la vita ti ha risparmiato. Perché sei ancora qui, ammaccata tanto quanto prima. Ma la vicinanza del pavimento, la possibilità dell’impatto, ti hanno finalmente fatto capire quanto sia bello esserci. Così ti rendi conto che alla fine è tutto relativo.

Noi ci lagniamo dei nostri malesseri, perché non li mettiamo in una prospettiva più ampia. Se vuoi, in un quadro più globale e più tragico. Quindi non ti capita mai, quando ti svegli ammaccata dopo una trasferta, di pensare che è una fortuna esserti svegliata. É una fortuna che tu abbia dormito nel tuo letto, con al fianco le persone che ami. E che nessuno fra voi è stato minacciato, ferito, spaventato.

Né avete patito la fame o il freddo. Non c’è nessuna guerra sotto casa, che rischi di toglierti quello a cui tieni di più. A quel punto le ammaccature ci sono sempre, ma non sono più così importanti. Hai tanto altro di cui rallegrarti, qualcosa che forse stavi dando troppo per scontato.

Come tutto è iniziato: https://annaporchetti.it/2022/10/18/mi-faccio-un-blog/

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