L’imperativo della testessitudine
Parliamo di testessitudine. Sapete cos’è? Ve lo ricordate Kant, il filosofo dell’imperativo categorico? Secondo lui, le nostre azioni soggettive sono morali, se possono essere valide per tutti. Ovvero, se diventano legge universale. Kant era un tipo metodico e una sorta di grafomane. Se volete fare bella figura, inventatevi una bella frase e attribuitela a lui (oppure ad Aristotele o a Cicerone). Anche se non è vero, nessuno vi scoprirà mai. Infatti, Kant – come gli altri due- ha scritto così tanto, che quasi nessuno lo ha letto tutto davvero.
La sua opera più importante, Critica alla ragion pura, era un tale mattone, che passò quasi inosservato. Kant si accorse di aver toppato. Due anni dopo, visto che Critica non se lo era filato nessuno, ne scrisse una sorta di riassuntino. Voleva rendere le sue idee più comprensibili al pubblico. E, giusto per rassicurare i lettori, gli diede un titolo facile e accattivante: Prolegomeni a ogni metafisica futura. Un genio del marketing!
Oggi il buon Kant avrebbe ancora meno lettori che ai suoi tempi. Infatti, questa idea di legge morale universale è inconcepibile, nella società contemporanea. Invece dell’imperativo categorico, vale il suo esatto opposto. L’imperativo della testessitudine.
La testessitudine come criterio di vita
Cu viene ripetuto a oltranza che: l’importante è stare bene con se stessi. La testessitudine è l’abdicazione ai valori universali. Ma che dico universali? Anche solo condivisi e condivisibili. È l’ammissione che non riusciamo a darci principi che siano validi, riconosciuti, rispettati e rispettabili per tutti. Non c’è più un canone morale.
Tradire il marito (o la moglie) è bene o male? Dipende. Se ti fa stare bene con te stesso, sì.
E lasciarlo?
E farti un figlio da sola oppure oltre tempo massimo? O fartelo fare a pagamento? Idem.
E comportarti da adolescente, passati gli anta, perché l’età è quella che ti senti? Va benissimo!
E col lavoro? Eh, bè, anche quello ti deve far stare bene. E il tuo corpo? Rispettarlo non è necessariamente un valore. Perché magari decidi che l’hashish ti fa stare bene. O l’alcol. O ventisette piercing. Se la tua testessitudine è soddisfatta, di chi o di cos’altro ti devi preoccupare?
Sono d’accordo di trovare equilibrio e serenità, eleggere a unico criterio di vita le nostre sensazioni di benessere e malessere, mi pare anti etico e molto azzardato. Eppure, ci ripetono con petulanza: stare bene con sé stessi! è il principio fondante della nostra esistenza. Ma poi, stare bene con sé stessi, che significa?
La legge universale e l’arbitrio personale
Stare bene con me stessa non ha una definizione precisa. Cambia da persona a persona. E, per la stessa persona, da momento a momento. Questo spiega perché siamo sempre più disorientati su cosa sia realmente il bene e il male. Il bene non è necessariamente star bene. Né il male coincide con una sensazione di malessere.
Si può perseguire il bene, stando malissimo (i santi martiri ci dicono qualcosa?). E si può fare del male, pur sentendosi benissimo (avete presente i truffatori?). L’errore enorme è rendere ogni persona e le sue sensazioni soggettive misura del bene e del male. Rischiamo di diventare schiavi della nostra precarietà emotiva. Incapaci di guardare un po’ più in là del desiderio o del disgusto del momento. Non è detto che quello che ci fa stare bene oggi, sia veramente per il nostro bene.
La testessitudine esclude l’altro
Una delle frasi che Kant usava, per illustrare la sua visione dell’etica era: «agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai come mezzo.» Se la mia legge morale è la testessitudine, l’altro per me è soprattutto un mezzo per essere felice. Uno strumento per “stare bene con me stessa”.
Il problema della testessitudine, è che, a pensare solo “star bene tu”, abbiamo smesso di chiederci come stanno gli altri. Specie le persone che dovremmo amare, rispettare, con cui dovremmo vivere. La testessitudine è la più grande nemica di un matrimonio felice. Sospetto che sia anche la causa di molti divorzi. (non ne ho le prove, ma ho molti ragionevoli indizi).
Il valore del passo indietro
Quando si ama qualcuno, ci si deve occupare di come sta lui (o lei). Dovremmo perseguire il suo bene, più che il nostro. Volere il bene dell’altro significa, di tanto in tanto, accettare di fare un passo indietro rispetto ai propri desideri, alle proprie necessità, alle proprie intenzioni. Per far posto a quello dell’altro.
Significa che, anche se sei stanco, rinunci alla pennichella sul divano, per aiutare tua moglie a seguire i vostri molti o pochi figli. Vuol dire che, anche se preferiresti trascinare il consorte in un selvaggio sabato di shopping, accetti che possa andare a giocare a calcetto con gli amici, come sua unica distrazione settimanale. Implica che ascolterai pazientemente le lamentele di tua moglie sul suo aspetto, giurando e spergiurando che invece è magnifica. (ma mi raccomando, mogli, non più di quindici minuti filati di lamentele al giorno). E che tu, moglie, ti asterrai da qualunque commento o interazione con tuo marito, la sfortunata serata in cui la sua squadra ha perso il derby in casa. (o la coppa campioni, o lo scudetto oppure aggiungi competizione a piacere).
E non fa niente se a te farebbe stare meglio parlare, trascinare il coniuge al centro commerciale, farti una pennica sul divano eccetera eccetera. Invece di pensare sempre e solo al tuo benessere interiore, ti sforzi di rendere felice l’altro. Se rendi felice l’altro, anche lui renderà felice te. Innescherete un circolo virtuoso che farà stare bene entrambi. Questo l’ho constatato di persona.
La testessitudine come direzione
Se abbiamo dei valori forti, una chiara definizione di bene e male, al di là del momento, diamo una direzione alla nostra vita. I nostri principi funzionano come semafori nel nostro cammino. Sono loro che segnano il via libera, lo stop o l’indicazione di procedere con prudenza.
Avere dei valori chiari non equivale a comportarsi sempre perfettamente. Capita di sbagliare, di cadere, di farsi fuorviare. Ma i nostri principi, anche nell’errore, ci danno l’esatta consapevolezza di chi siamo. E di cosa vogliamo fare di noi stessi. Anche quando non ci riusciamo.
La testessitudine mutila la religione
Oggi la religione viene relativizzata. La testessitudine mutila anche la nostra dimensione religiosa. Questa mutilazione avviene per la dimensione etica, più che per quella trascendente. Ci sono persone che sono disposte ad ammettere che Dio esista. Tuttavia, rifiutano i principi di bene e di male che la religione indica. O vorrebbero negoziarli a proprio favore.
Io sento troppo spesso dire: Io credo in Dio ma… Ma: non vado a Messa, perché non mi fa stare bene. Oppure: Mi concedo atti impuri, perché mi procurano benessere. O anche: Non mi prendo cura dei nonni o dei genitori, perché mi pesa e preferisco usare il mio tempo libero per me. E spesso: Non rimango accanto al coniuge. Penso che con un’altra persona più giovane, più bella, più simpatica, ecc starò meglio.
Il cristianesimo è la fede dell’amore per il prossimo
Molte di queste persone – che ritengono di essere religiose – non vedono nulla di male, nell’assecondare solo i loro desideri e le loro sensazioni. Non comprendono come possa un’azione essere sbagliata, se procura loro piacere o benessere.
San Paolo lo spiegava bene:
«Tutto mi è lecito!». Ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Ma io non mi lascerò dominare da nulla. (1Cor 6:12)
Non ci giova farci dominare dallo stato d’animo del momento. Dalla testessitudine, che tutto riduce a sensazione.
L’egoismo è il contrario del cristianesimo. Se Gesù avesse scelto quello che lo faceva stare bene, si sarebbe lasciato tentare dal demonio nel deserto. Avrebbe trasformato le pietre in pane. E magari in croissant. Perché accettare la morte di croce, invece di allontanare da sé quel calice? Non basta credere nell’esistenza di Dio, se lo si tratta come un’entità teorica. Una idea astratta, priva di influenza nella nostra vita. Nel cristianesimo, attraverso l’amore per Dio, amiamo anche il prossimo.
«Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» Giovanni 13,34-35
La testessitudine ci isola e ci rende infelici, anche se sulle prime sembra un’idea furba.
Avevo parlato di questo aspetto qui: https://annaporchetti.it/2022/11/28/tutti-pazzi-per-il-black-friday/
E in quest’altro articolo: https://annaporchetti.it/2022/12/05/perche-il-padel-e-piu-popolare-del-matrimonio/
infine qui: https://annaporchetti.it/2023/04/26/ansia-amica-fedele/
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