La lunga strada verso l’uguaglianza
“Libertà, uguaglianza, fratellanza”. E’ un celebre motto, che ha cominciato a circolare nel settecento. La Francia ne ha poi fatto il proprio slogan, caso pressocché unico di una nazione che si dota di una mission. Ma quanto è veramente così? Nel mondo antico, l’uguaglianza era una chimera. Le società erano stratificate. C’erano gli uomini liberi e gli schiavi. Gli uomini e le donne. E anche fra i maschi adulti e liberi, c’erano spesso classi più o meno rigidamente definite.
Quello, diremmo noi, era il passato. Negli ultimi due secoli, molte barriere sono cadute. Le discriminazioni razziali e religiose, quelle per il genere e infine per la famiglia di appartenenza o il censo non esistono più. Un uomo o una donna che nasce in occidente oggi, gode di perfetta uguaglianza. Nessuno rimpiange i secoli bui dell’iniquità. O no?
Non bastano le leggi, per una vera uguaglianza
Si sente spesso dire che le leggi riflettono la cultura di un popolo. Questo è stato un argomento forte in molti contesti (per esempio ne parlo qui: https://annaporchetti.it/2023/08/06/la-condizione-femminile-in-un-film/). La cultura va avanti e le leggi la recepiscono e la codificano. Per questo le leggi umane sono mutabili, a differenza di quelle divine.
Le leggi umane accompagnano il comportamento dell’uomo. L’abbiamo o no conquistata in modo definitivo l’uguaglianza? Forse sì, secondo le leggi. Non del tutto, secondo la cultura. Per lo meno questo si vede. Facciamo qualche esempio.
Il problema dell’uguaglianza
Qualche settimana fa, si è fatto parecchio umorismo su un attempato, sofisticato giornalista, che ha scritto un articolo sui suoi compagni di viaggio. Non è il primo a misurarsi col tema del viaggio. Il genere è dei più comuni. Da l’Ulisse al giovane Salinger, passando per Gulliver, c’è una vasta gamma di racconti di viaggio. In molti casi, si tratta di libri bellissimi. Ma non stavolta. Se avete seguito il fatto di cronaca, sapete già che il giornalista in questione non ha raccontato una storia avvincente.
Niente affatto. La paginetta che ha scritto non aveva nulla di memorabile. E nemmeno una traccia di ironia. Dalla sua penna blasonata (rigorosamente stilografica) è uscito un manifesto di uno snobismo così antico, che scavalla la rivoluzione francese, per atterrare direttamente sulle ginocchia di Maria Antonietta. La regina passata alla storia per la sua fine tragica, ma non solo. Ricordata ancora oggi per la sua convinzione che il popolo affamato, potesse fare merenda con le brioche, se non aveva pane.
Nel giornalista attempato nostro contemporaneo, c’è una vena di fastidio maggiore, rispetto all’accondiscenza della regina di Francia. Perché Maria Teresa sapeva bene di essere regina, figlia di regina, moglie di re. Diciamo che il suo privilegio di nascita non era in discussione. Poi, è arrivata quella dannata rivoluzione francese. E si è portata dietro questa pessima idea dell’uguaglianza. È l’uguaglianza che infastidisce il giornalista e fa ridere a crepapelle noi lettori.
Il peggiore dei mali
Tutto l’articolo si può sintetizzare in questo: ma come si permettono questi ragazzotti in maglietta, Nike e cappellino con visiera, di salire sul mio stesso treno, stare nel mio stesso scompartimento, respirare la mia stessa aria?
È uno sbigottimento carico di lesa maestà. Oramai chiunque può dividere lo stesso spazio con te, quasi come se ci fosse davvero uguaglianza!
La situazione ricorda il dialogo di apertura de La locandiera. Quello in cui il Marchese di Forlipopoli tenta inutilmente di marcare la propria superiorità verso il parvenue, il Conte di Albafiorita.
E gli dice: “fra me e voi c’è qualche differenza”.
Al che, l’altro gli risponde: “Sulla locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio”.
Un po’ come i biglietti di Italo, che, ancorché di prima classe, possono essere comprati da chiunque. Indipendentemente dal blasone. Una tariffa unica, che cancella le distinzioni sociali e culturali fra gli attempati e celebri giornalisti e gli adolescenti con iphone e cuffie. L’uguaglianza è una conquista per chi ci crede. Per gli altri è il peggiore dei mali.
La distinzione è il contrario dell’uguaglianza
L’attempato e distinto giornalista, ha realizzato dolorosamente che le ferrovie pare trattino tutti i passeggeri con uguaglianza. Ma noi non siamo uguali!
Sottolinea il giornalista attempato.
Ma come? Io vesto di lino blu, non indosso magliette bianche! Uso la stilografica. Non adopero zainetti verdi, ma cartelline in cuoio marrone. Leggo romanzi storici – e dei più ostici- direttamente in lingua originale. Passo con disinvoltura dal romanzo francese dell’ottocento ai non meno oscuri articoli del financial times. Trasudo distinzione da ogni poro, invece che sebo, come voi comuni mortali. E vorreste parlarmi di uguaglianza? Con questi qui, poi?
Il pezzo in cui descrive sé stesso, indugiando su tutti i particolari del suo abbigliamento raffinato, dei suoi accessori alla moda, mi ha ricordato Flajisman. Un personaggio creato di Milan Kundera. Ecco come Kundera racconta Flajsman:
Cullato dalla sicurezza di sé (una sicurezza sempre piuttosto stupita), si abbandonava a una piacevole passività. Si vedeva infatti sempre come un uomo attraente, conquistato, amato e gli piaceva aspettare le avventure con le braccia, come suol dirsi, conserte. Era convinto che proprio quella posizione provocasse in maniera eccitante le donne e il destino.
Vale forse la pena, in quest’occasione, accennare al fatto che Flajšman molto spesso, se non addirittura sempre (e con un certo autocompiacimento), si vedeva, la qual cosa lo sdoppiava in continuazione. Adesso, ad esempio, non solo stava fumando in piedi appoggiato al platano, ma allo stesso tempo osservava con piacere se stesso in piedi (bello e giovanile) appoggiato al platano fumare con nonchalance.
Flajsman ed Elkan si piaccino molto. Amano osservarsi dall’esterno e compiacersi della loro sofisticata avvenenza. Avvenenza contrapposta all’aspetto ordinario dei comuni mortali intorno a loro. Un confronto così netto, che esclude ogni possibilità di uguaglianza.
Io sono io e voi…
Se potevamo avere un dubbio sui sentimenti che il giornalista attempato ha provato verso i suoi compagni di viaggio, ci ha pensato lui stesso a eliminarli. Per definirli, ha riesumato i lanzichenecchi, soldati mercenari attivi in Europa dalla fine del medioevo al Seicento. Soldataglia rozza e crudele.
Badiamo al termine. Lanzichenecchi. Non: barbari, selvaggi, zulù, trogloditi, o altre parole, di uso più comune. No, lui parla dei lanzichenecchi di manzoniana memoria. Perché, pure nell’apostrofare il prossimo, è bene distinguersi. E sfoggiare un certo retroterra culturale.
Saremo forse uguali sulla carta, ma c’è chi sente di appartenere a una qualche oligarchia. Una oligarchia del denaro, del pensiero, dello stile. Una élite che non ama mescolarsi e se, come in questo caso, vi è costretta, se ne sdegna.
E chissà, l’attempato giornalista avrà sospirato di malinconia, constatando che mala tempora currunt. Bei tempi quelli in cui l’uguaglianza non esisteva. A uno come lui sarebbe toccato lo stesso ruolo recitato da Alberto Sordi: il marchese del grillo.
Colui che, quando, in una volgare rissa in osteria, arrivano le autorità, non viene arrestato. Gli viene riconosciuta la distinzione che merita, per la sua condizione aristocratica.
Mentre il “volgo” deve affrontare la polizia, lui se ne torna sano e salvo a casa, in carrozza. Bella vita, quella dei marchesi dell’ottocento. Mica come gli attempati giornalisti del ventunesimo secolo. Giornalisti, che, per colpa dell’uguaglianza, non possono più dire ai popolani: “io so’ io, e voi nun siete ‘ncazzo”
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