Elogio del barista (e dell’analista)

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Il barista, l’analista e il libro del venerdì

Oggi, giorno del libro della settimana, parlo di un’analista, di un barista e di un libro. Il barista sotto casa lo sa. Non c’è niente che mi fermi. Io, una volta al giorno, scendo e mi faccio un caffè. Potrei rinunciare a molte altre cose. In passato l’ho anche fatto. Ma il caffè no. Per me è un imprescindibile del vivere. Non è solo una questione di bevanda calda, di caffeina, di abitudine. Nell’economia della vita, il caffè è un rito a cui è difficile sottrarsi. Specie il caffè al bar. Nei film americani, c’è un onnipresente barista, che dispensa in egual misura bevande e perle di saggezza. Una sorta di custode di molti segreti, un punto di riferimento, un confidente.

E’ un ruolo sociale, quello del barista. Specie in una società in cui i rapporti sono rarefatti, quasi nebulizzati. In un mondo in cui non c’è più spazio per vicinanza emotiva e intimità, ci risulta più facile parlare col barista che con la moglie, i figli, i genitori, gli amici. Talvolta, è più facile lasciarsi andare a confidenze col barista, che con l’analista. E non è detto che anche parlare con il barista non sia di aiuto. Da questa circostanza nasce lo spunto per il libro di oggi: L’elogio del barista.

Il mestiere dell’analista (e quello del barista)

Il libro di questo venerdì è un saggio brevissimo. Si legge con piacere in un paio d’ore. Visto che la temperatura è quasi ovunque sopra i 35 gradi (percepiti 350), credo che la piacevolezza sia doverosa per un libro, di questi tempi. A guardarlo dall’esterno, potreste sospettare che sia un testo noioso. Scritto da una psicoterapeuta, è basato sull’assunto che la psicoanalisi è uno strumento potente, ma non sempre utile alle persone. Pare di partire in salita. E invece no.

Nel dorato mondo della psicoanalisi e dell’analista

La psicoanalisi è diventato un grande mai più senza per la mia generazione. In principio fu Woody Allen, nei panni di un tormentato e intelligente attore-regista-intellettuale a iniziarci all’idea della psicoanalisi come soluzione alle inquietudini della vita moderna. E’ vero, in principio sembrava una cosa esotica. Forse anche vagamente stigmatizzabile. Andare dall’analista era un po’ come ammettere di avere qualche rotella fuori posto. Ma la psicanalisi è stata sdoganata in fretta.

Quasi subito ha cambiato pelle e nome. Ridotto ad “analisi”, molto più rassicurante e facile da mimetizzare. Ed è cambiata la fauna. Non più solo intellettuali genialoidi e pieni di fragilità, ma madri di famiglia alle prese con il senso di inadeguatezza, uomini in crisi di mezza età, giovani che non trovano la loro strada. Certo, le celebrità hanno fatto da apripista, c’è chi ha persino ammesso di essersi indebitato, per pagare le parcelle del suo analista (qui: https://www.vanityfair.it/article/andrea-delogu-dieci-anni-analisi-ho-fatto-i-debiti-per-pagare-psicologo).

Fatto sta che i miei coetanei sembrano sempre meno a loro agio, nell’affrontare le fatiche del vivere, senza un’assistenza specialistica. L’analista non è più un lusso per gente ricca, ma una necessità. Come l’antidolorifico o il collutorio. E loro? Cosa pensano gli psicoterapeuti, del loro lavoro?

Dall’oste al barista

Un vecchio proverbio suggerisce che non sia saggio chiedere all’oste se il suo vino è buono. Gli analisti e psicoterapeuti, che, con le pene dei loro pazienti, pagano il mutuo prima casa, sono sinceri sull’utilità e il limiti della loro professione? In questo caso sì. L’autrice di L’elogio del barista, apre il libro con questa considerazione:

“qualcuno – non ricordo chi- ha detto: se hai un problema puoi fare tre cose: parlarne con il tuo barista, andare in analisi, o tenertelo per te. Il risultato alla fine sarà lo stesso”.

Nel libro racconta, con acume e ironia, i modi in cui rendiamo noi stessi infelici. Raccoglie una casistica, tratta dalla sua esperienza. Ci racconta di alcune persone, delle loro battaglie. Parla di quello che la psicoanalisi ha fatto per loro. E di quello che non è riuscita a fare. Perché, come scrive l’autrice: “la vita non si cura”.

In modo molto onesto e spiritoso, la Ferraresi spiega le più comuni trappole psicologiche che le persone creano e in cui restano invischiate. Dinamiche che, in qualche caso, il terapeuta può gestire e in altri no. Perché in terapeuta non è Dio, come la scrittrice sottolinea.

Un libro molto bello, molto interessante uno spunto di riflessione, che si legge in un soffio. Anche sotto l’ombrellone (per chi ha la fortuna di starci). Il libro si può acquistare qui: https://amzn.to/3qdhord

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