Basta con le parolacce: come eliminarle e vivere felici!

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Abbasso le parolacce (ma chi non le ha mai dette, scagli la prima pietra)

Le parolacce sono una brutta cosa. Niente affatto cattolica. Il mio confessore me lo ha ricordato. Anche se poi, nella sua grande bontà d’animo, si è mostrato comprensivo. Quando gli ho detto che, insomma, deprecabili le parolacce sempre, però quando ce vo’, ce vo’ , ha scosso la testa. Ma poi ha sorriso. Nemmeno il mio angelo custode se la passa tanto bene. A lui tocca il lavoro sporco, starmi appiccicato ventiquattrore al giorno, evitando che faccia guai troppo grossi.

In giornate come questa me lo immagino, a fine serata, collassato al bancone del Bar paradiso. Altro che consumazione gratuita, lui secondo me ha l’indennità happy hour. E, un po’ alticcio e sconfortato, si confida col barista. Che è un barista angelico, ma, come tutti i professionisti del settore, sa ascoltare con pazienza e in silenzio gli sfoghi di tutti.

E il mio angelo custode rovescia il sacco. E gli spiega che io non sono per nulla una di quelle belle damine che, per tanto che si arrabbino, al massimo si lasciano sfuggire un acciderba! Accipicchia! Accidempoli! Donne virtuose che, al culmine dell’invettiva, riescono sì e no a proferire un accidempolina ciripicchiola, ma con tono concitato, eh, che si sappia. A me invece, escono fuori proprio le parolacce. Quelle vere. Non troppo spesso, in verità. Ma a volte sì.

Ridurle come i carboidrati

Con il mio confessore abbiamo raggiunto un onorevole accordo. Maggio è il mese dei fioretti e io devo fare così, smettere di dire parolacce. Anche quanto sono arrabbiatissima. Pure se non mi sente nessuno. Persino quelle dette solo con il pensiero. Per fioretto smetterò di ricordare agli automobilisti selvaggi che la loro genitrice esercita un secondo lavoro, in outdoor, lungo i vialoni della città, in orari notturni e festivi. Per lo stesso motivo, non solleverò più dubbi sulla reale identità genetica dei figli dei tizi che lasciano le auto in doppia fila, impedendomi di uscire dal mio regolare e faticosamente guadagnato parcheggio. Né inviterò più alcuno a recarsi in una certa località, per quanto costui possa essere antipatico o molesto.

Smettere così, tutto a un tratto, è una impresa. Il Don mi è venuto incontro. Dice che una parolaccia ogni tanto me la abbuona. Un po’ come fosse una licenza poetica, ma al contrario. Come Leopardi che scriveva “il zappatore”, pur sapendo benissimo che non si fa, non è corretto. La domanda è: ma quanto spesso è ogni tanto? Bè non è che le poesie di Leopardi grondino di il zappatore a ogni verso.

E così, un po’ per volta ci si lascia l’improperio alle spalle. Anche perché smettere di dire le parolacce per sempre è una cosa che si fa gradualmente. Come col carboidrato. Non lo togli subito, tutto di botto. Altrimenti il rischio dello sgarro, della trasgressione, è altissimo. Invece riduci le porzioni, finché non ti abitui. Finché farne a meno diventa naturale. Così naturale che senza stai meglio. E finisci col chiederti perché non ci avevi pensato prima. Un po’ alla volta dunque. Perché la parolaccia è brutta, ma tanto liberatoria. Proprio come la pastasciutta.

L’avanzata del turpiloquio

Oggi si parla peggio che in passato (d’altronde si vive anche peggio). Il turpiloquio è molto più comune di quanto non fosse anche solo venti o trent’anni fa. Le parolacce sono pervasive e democratiche. Nel senso che si insinuano nel discorso delle persone comuni, come di quelle coltissimi. Ne dicono sia i giovanissimi che i diversamente giovani. Ve li vedete i personaggi di spessore del passato, a perdere le staffe e ingiuriare il prossimo? Una volta un linguaggio forbito distingueva a pelle una persona istruita da un bifolco. Parlare bene, rientrava in un generale senso di nobiltà d’animo e civiltà di comportamento. Abbiamo perso il senso del decoro, il rispetto della forma. O perlomeno, li abbiamo allentati un po’. Non vogliamo sforzarci, lasciamo che le nostre sensazioni prendano il sopravvento. Per quello imprechiamo, insultiamo, vilipendiamo. Perché, invece di controllare le nostre emozioni, ce ne lasciamo travolgere.

Negli anni 70, quando ero ragazzina, le parolacce erano soprattutto segno di trasgressione. Gli adulti non ne dicevano, perciò i ragazzi colonizzarono subito questo spazio lessicale inesplorato, per far vedere che erano coraggiosi: sfidavano il buon senso e l’educazione e per questo si sentivano forti. Gli anni della ribellione sono passati, ora la nostra vita sociale è meno polarizzata. Abbiamo meno rivendicazioni rivoluzionarie. Siamo però più stanchi, più sciatti, più rabbiosi. Siamo più schiavi che mai delle nostre pulsioni. Ci facciamo quasi un punto di onore di esprimerle sempre. Perché vogliamo essere spontanei, naturali, senza filtri, come si dice oggi. Mentre invece il filtro è proprio una barriera di civiltà ed educazione che ci distingue dall’uomo di Neanderthal.

Dire parolacce è peccato

Oltre a motivi di decoro e dignità – valori condivisibili, ma totalmente umani- ci sono anche motivi evangelici a dissuaderci dall’uso di un linguaggio da carrettiere. (Senza offesa per i carrettieri, anzi, mettiamoci pure in disclaimer: nessun carrettiere è stato insultato per le finalità di questo post). Il cristiano lo sa: nel Vangelo si scoraggia moltissimo l’uso di espressioni forti. Ed è per questo che conviene impegnarsi a evitarle.

Se pensate che le parolacce siano in fondo cosa da poco, perché i peccati sono ben altri, rischiate anche voi la trappola del benaltrismo, che, sono sicura, è peccaminoso pure lui, anche se nel Vangelo nessuno lo ha mai detto.

Nel Vangelo di Matteo Gesù dice espressamente: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt 5,21-22). E attenzione che il fuoco della Geenna non è cosa da poco: praticamente è l’inferno.

Lo ribadisce San Paolo: “Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano” (Ef 4,29) nella lettera agli Efesini (ma vale pure per gli italiani).

Ma allora, come fare, quando ti sale la rabbia? Quando la persona che hai di fronte ti sta scartavetrando i nervi? Invece di spedirla in quel tal paese che io ben conosco e voi pure, sarebbe meglio fare una preghierina. Questa è un’ottima soluzione, lo dicono pure i salmi: “Benedirò il Signore in ogni tempo: sulla mia bocca sempre la sua lode!” (Sal 33,2)

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