A proposito di carità (intervista)

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Intervista a Don Matteo Rubechini

Don Matteo Rubechini è un giovane sacerdote della diocesi di Perugia-Città della Pieve. Ha compiuto studi di Teologia Dogmatica, nella quale sta conseguendo un dottorato di ricerca. Nel frattempo, è parroco nella sua diocesi. L’ho raggiunto per approfondire un argomento molto importante per la vita dei cristiani e non solo: la carità. Don Matteo, nell’intervista che riporto di seguito, spiega quale sia il reale significato della carità, perché la carità sia la più importante delle tre virtù teologali e come declinare questo valore semplice e allo stesso tempo complesso, nella vita quotidiana.

Buongiorno Don Matteo, parliamo di carità: cosa intendiamo con il termine?

Non è possibile dare brevemente una risposta esaustiva ad una domanda così apparentemente semplice eppure così complessa. Carità ha una corposa serie di significati legati fra loro che fanno capo al concetto di amore gratuito. “Gratuito” non perché possa esisterne uno “a pagamento”, ma per sottolineare la sua libertà dalla logica del contraccambio.

Non è un caso che nel linguaggio corrente si sia soliti parlarne in circostanze legate alla beneficenza o all’elemosina. Si tratta di un termine che assumiamo dal latino caritas e che, a sua volta, ha la sua radice etimologica nel greco chàris (χάρις), che fondamentalmente significa grazia, il che rafforza l’idea soggiacente che si tratti di una sorta di bene gratuitamente elargito.

È, tuttavia, questo genere di carità una conseguenza di una disposizione operativa. Dal punto di vista cristiano, infatti, non può che balzar subito alla mente che con carità si indichi una delle tre virtù teologali. Anzi la più grande di esse (cf. 1Cor 13,13).

Nel Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento il termine corrispondente al latino caritas va rintracciato in agàpe (ἀγάπη) che esprime, nel più ampio panorama lessicale greco, la forma d’amore più alta rispetto alla philìa (φιλία) e all’eros (ἔρως). Questi ultimi rispettivamente indicativi dell’amore amicale e dell’amore sponsale (o anche passionale). Esso, inoltre, include in sé anche gli aspetti dell’ebraico veterotestamentario hèsed che, appunto, esprime la misericordia divina nella sua concretezza. Difatti, pur essendo di per sé un generico sinonimo di amore, al contrario di quest’ultimo mantiene universalmente un significato concreto. Sicché è impensabile una carità solo sentimentale o ideale, mentre sempre è riconducibile ad un atto o ad una realtà sperimentabile.

Il vangelo

In quanto atto, la carità risponde al grande comandamento: «amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Di qui viene manifestata la direzione irriducibilmente duplice che esso implica. Si mette in atto la carità – si ama – facendosi interlocutori di Dio e insieme degli altri.

L’apostolo Giovanni è chiaro in proposito: «chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20). È, tuttavia, errore particolarmente diffuso oggigiorno quello opposto. Ossia il ritenere che si possano amare gli altri senza amare Dio. A scalzare tale modo di pensare basterebbe l’esame delle nostre effettive capacità ad amare.

In fin dei conti, ad un’onesta presa di coscienza della propria personale condizione, risulta chiaro che l’amore che vorremmo dare agli altri ci sfugge sempre un po’. O non ci basta. Oppure, ancora, si rivela non essere poi così gratuito, così buono, così amore. In un diffuso approccio biblico di tipo frammentario, dove si isolano citazioni e non si tiene sufficientemente conto dell’insieme, si dimentica che il Signore Gesù comanda, sì, «amatevi gli uni gli altri», ma «come io vi ho amati» (Gv 13,34).

E’ quest’ultima precisazione non solo foriera di un imprescindibile parametro, in quanto siamo chiamati ad amare come Cristo. Essa contiene anche un’imprescindibile sorgente, in quanto siamo chiamati ad amare partendo da Lui.

Non a caso queste parole di Gesù si collocano poco dopo il gesto della lavanda dei piedi ai discepoli e l’abbattimento delle ritrosie di essi a riguardo. Per amare davvero – amare come Cristo – bisogna anzitutto lasciarsi amare da Cristo.

L’ultima cena

Proprio il contesto dell’ultima cena, nel quale il gesto della lavanda dei piedi e il comando suddetto – quello ad amare – si collocano, ci aiuta a delineare meglio la forma della carità. L’esortazione di Gesù ad amare come Lui è, infatti, esortazione ad offrirsi completamente.

In quel pasto, attraverso il quale il Signore istituisce l’Eucaristia, Egli preannuncia e prefigura quanto sarebbe di lì a poco accaduto. «Prendete e mangiate; questo è il mio corpo» (Mt 26,26) esprime ciò cui l’amore di Gesù chiama a conformarsi. In tal senso carità non è semplicemente donare qualcosa, ma donare se stessi.

La carità è realtà

Si è detto prima, però, che carità non è solo atto (donazione di sé), bensì anche realtà o – in termini filosofico-teologici – sostanza. Sono gli scritti giovannei ad essere più nitidi su questo fronte. All’inizio del quarto Vangelo siamo avvisati che in Gesù si può vedere il Dio invisibile (cf. Gv 1,18). Questo Dio invisibile emerge nelle pagine seguenti – per dirla nella maniera più sintetica possibile – come una realtà di comunione di tre persone divine (il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo).

Infine nella prima lettera di Giovanni (4,8) si giunge a definire che cos’è questa realtà: «Dio è amore», Dio è carità. Egli – Dio – è infatti tre persone che si amano al punto da essere una cosa sola, una sola realtà, una sola sostanza, un solo amore, un solo Dio. E poiché l’amore è generoso, dalla pienezza del suo amore libero non solo proveniamo, ma anche siamo chiamati a vivere.

Di qui la nostra conclusione: per carità si intende anzitutto Dio in se stesso, ma per suo dono (nello specifico, per il dono dello Spirito Santo) è anche Lui in quanto ospite del nostro cuore (la carità divina ci abita attraverso il Battesimo) ed anche quello che Lui attiva in noi con la sua presenza (atti e virtù di carità che consistono nel concreto donarci come Cristo).

C’è differenza fra la carità cristiana e altre forme di solidarietà di matrice laica?

La risposta a questa domanda va ricercata in gran parte nella definizione che abbiamo dato al termine carità. Essa non è un semplice fare del bene, ma è un donarsi a partire da Cristo e avendo Lui come parametro e modello. In tal senso la carità cristiana risponde chiaramente all’appello di Gesù: «rimanete nel mio amore» (Gv 15,9) che mette al riparo dalla tentazione di storpiare il bene a proprio piacimento. In 1Gv 3,18, a tal proposito, si evita il diffuso fraintendimento dell’amore col buonismo: «figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità».

La carità ha a che vedere con i fatti nei quali si esplica, ma anche con la verità. Essa presuppone, dunque, un confronto con la realtà nel suo complesso (includendo in tale complesso Dio, il mondo e gli uomini nella loro identità). Ora, nella misura in cui la solidarietà di matrice laica si basa sulla verità e così cerca di rispondere davvero all’esigenza del bene, non è tanto un’altra cosa dalla carità cristiana, bensì piuttosto una sua dimensione.

La solidarietà non equivale a carità

Solidarietà non equivale sic et simpliciter a carità perché essa si dipana su un piano orizzontale, ossia si rivolge nello specifico agli altri uomini; tuttavia, proprio per quanto abbiamo già detto, è impossibile disgiungere l’amore per il prossimo da quello per Dio al punto tale che lo stesso Signore Gesù spiega che quanto abbiamo fatto agli altri dobbiamo considerarlo fatto a Lui (cf. Mt 25,31-46).

Non si tratta di ricercare un esplicito marchio religioso su ogni protensione solidale che gli uomini mettono in campo, ma non si può nemmeno ignorare che il bene è sempre suscitato da Dio, anche quando chi lo compie non lo sa. Può essere utile fare un’analogia con un’affermazione di san Tommaso d’Aquino che, nella sua Summa Theologiae (I-II, q. 109, a. 1, ad 1) afferma: «ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo».

Lo stesso vale per ogni bene: da chiunque sia fatto, viene dallo Spirito Santo. L’amore e la solidarietà avvengono sempre per lo slancio dello Spirito che ci rende partecipi dell’amore di Dio stesso e di quella solidarietà che appartiene a Cristo.

Che ruolo ha nella vita quotidiana di un Cristiano del ventunesimo secolo?

La carità riveste un ruolo imprescindibile nella vita quotidiana di qualunque tempo. Senza carità si può vivacchiare, sopravvivere, tirare avanti, ma non vivere davvero. E questo vale, in realtà, anche per i non cristiani, dato che non esistono due possibili opzioni di pienezza della vita, né versioni differenti dell’invito che Cristo rivolge all’umanità intera seppur nei suoi singoli. Mi pare, tuttavia, di comprendere che la domanda in questione si interessi di come un cristiano viva la carità oggigiorno e non voglio sembrare evasivo nel dire che non esiste una risposta vera e propria a tale interrogativo.

La carità creativa

La carità per sua natura è creativa e, come si è detto, tiene conto della concretezza della realtà con la quale ci si interfaccia. Per ciascuno si tratta ogni volta di donarsi, di fare il bene dal momento del risveglio fino al riposo, sfruttando tutta la vasta gamma di possibilità che vanno da uno sguardo attento ad un’eroica donazione di sé. Il contesto temporale in cui ciò si colloca – il XXI secolo, appunto – rispetto al passato, in un certo senso amplifica le possibilità del bene, poiché i mezzi a nostra disposizione consentono una maggiore possibilità di accesso alla conoscenza ed anche una maggior possibilità di prossimità agli altri.

In altri termini possiamo fare il bene meglio e a più persone. Il rischio, tuttavia, più accentuato rispetto al passato e da evitare accuratamente, è quello di ridurre la carità da azione a fatto, da relazione a oggetto, da attenzione personale a mera elargizione di beni. Anche oggi, insomma, la carità è la piega che il cristiano è chiamato ad assumere nella vita. Alla fine tutto – proprio tutto – quel che facciamo può esser fatto o per noi stessi (per soddisfazione, arricchimento, vanagloria etc.) o per amor di Dio, ossia un bene che include noi stessi ma va ben oltre le ristrettezze dei nostri “guadagni” (spirituali o materiali che siano). Carità nel secolo presente, come in tutti gli altri, è questo indirizzo costante con cui il cristiano guarda, ragiona e agisce (o almeno così dovrebbe).

Le sembra che la carità sia sottovalutata? Se sì, cosa ci impedisce di essere più generosi?

Non credo di poter dire che la carità sia sottovalutata. Almeno in linea di principio la maggior parte delle persone comprende la necessità di prendersi cura degli altri, specie quando si tratta di rinfacciare agli altri che non lo fanno. Dal punto di vista pratico, poi, sono molti i fattori di cui tenere conto, non ultima la situazione di molti che vivono in una perenne instabilità economico-lavorativa (attuale o prevista) percepita come instabilità personale. Di qui ne risulta che molti, dandosi pensiero quasi esclusivamente di sé e della propria condizione, dimenticano la concreta esistenza degli altri e in questo senso attendono di essere “generosi” in un imprecisato (e forse neppure garantito) domani.

Ovviamente tale preoccupazione di sé viene condivisa in gran parte anche da chi ha grossomodo garantita una dignitosa sussistenza. Il problema di fondo è sempre dentro l’uomo e non nelle contingenze esteriori in cui esso si trova a vivere (cf. Mc 7,15). Il problema è imparare a donarsi fino in fondo, invece che cercare di salvare se stessi (cf. Mt 16,25-26). Ma giustamente si chiede: cos’è che impedisce di esser generosi, di donarsi così?

L’utilità della carità

Io credo che l’ostacolo fondamentale consista nella cattiva valutazione di chi siamo e di quale fortuna abbiamo ricevuto. Tradotto in altri termini: spesso non siamo più generosi, perché non riteniamo molto utile la nostra generosità. Come se donarsi non cambiasse, alla fine, un bel nulla. O perché riteniamo di possedere troppo poco e, in fin dei conti, anche di valere poco. Insomma, un qualsiasi avventore di un ristorante è disposto a dare un colpetto sulla schiena al commensale cui sia andato di traverso un boccone. Ma per avventurarsi in una tracheotomia d’emergenza, occorre che uno sappia di essere in grado di farla e quanto essa sia necessaria.

Forse le cose stanno così anche per la carità. Ci facciamo sopraffare dalla paura di donarci. Fintanto che non riusciamo a capire che possiamo farlo e quanto questo dono sia necessario dato che – cosa spesso dimenticata – Dio si è degnato di farci cooperatori alla sua provvidenza (cf. CCC 323).

È necessario, a questo proposito, anche un tuffo nella consapevolezza delle grazie quotidiane che ci toccano immeritatamente. A partire da quella fondamentale e spesso data per scontata di essere ancora vivi. Dalla gratitudine sorge, infatti, un approccio differente verso gli altri, più generoso (e anche più coraggioso!), quello di chi non deve accaparrarsi la vita ma vuole donarla.

Don Matteo, quali raccomandazioni farebbe a un Cristiano che desideri diventare più caritatevole?

Alla luce da quanto appena detto, la raccomandazione principale che io farei è quella di coltivare la gratitudine per gli innumerevoli doni ricevuti.

In secondo luogo, poi, inviterei a porsi in ascolto costante della Parola di Dio che davvero è lampada per chi voglia muovere qualche passo decisivo sulle vie della carità (cf. Sal 119); essa ci dona uno sguardo diverso sulla realtà e così ci fa approcciare ad essa in modo rinnovato e davvero creativo. Tutti i santi hanno avvertito che il Signore si stesse rivolgendo loro: hanno ascoltato e si sono messi in gioco. Si tratta, dunque, anche per noi di tendere l’orecchio, di ascoltare, di giocarsi.

In terzo luogo, infine, inviterei a considerare sempre il contesto di prossimità, di tempo e di luogo, nel quale la carità è di fatto realizzabile. Si tratta cioè di mettersi al riparo dal pensiero illusorio che si amerà domani e/o altrove. Ciascuno deve ricordare che carità è fare il bene dell’altro “qui e ora”, sempre qui e sempre ora. (Io stesso nel rispondere a queste domande tento di non essere superficiale e di essere di qualche giovamento per chi avrà la pazienza di leggere le mie riflessioni). Così quest’ultima raccomandazione può prendere una forma esortativa del genere che segue: non pensare quale carità fare, ma come quel che fai può essere carità (ossia dono di bene per l’altro).

Si può declinare la carità anche in famiglia? Quali potrebbero essere esempi concreti di carità fra gli sposi? E fra genitori e figli?

Proprio in ragione della prossimità quale unico habitat in cui la carità può essere esercitata (come si è detto poco sopra), la famiglia è il contesto primario della carità. Spesso è necessario ricordarlo anche in contesti parrocchiali. Non è raro il caso di chi si lascia avvampare dal desiderio di spendersi in senso “pastorale” (catechismo, oratorio…). Trascurando però l’ambito della propria vita domestica.

La carità nel rapporto tra gli sposi e in quello tra genitori e figli può essere pensata alla luce di quell’ultima raccomandazione che si è data in risposta al precedente quesito. Occorre chiedersi non tanto che novità amorosa mettere in campo ogni volta (sebbene un po’ di creatività non guasti ogni tanto!). Ma come rendere le cose di ogni giorno (incluse le responsabilità e i doveri) un dono per l’altro.

La carità sponsale in un esempio

Mi è rimasto impresso, a tal proposito, un esempio che ho ascoltato da un padre di famiglia. Qui lo rielaboro sinteticamente: si può preparare una cena o mettendo un pomodoro e una mozzarella sani vicino ai recipienti dei condimenti oppure impiattando un’insalata caprese. Dal punto di vista nutritivo non c’è alcuna differenza, ma solo la seconda opzione costituisce una vera cena. È il dono di sé che determina il cambiamento di una tavola da dispensa a mensa. Così fra gli sposi si tratta spesso di salutarsi, parlarsi, aiutarsi in questo modo. Non di sbrigare delle formalità abitudinarie – sebbene sia inevitabile che in esse ci sia qualcosa di abitudinario – bensì di essere attenti all’altro. Lo stesso si dica per quanto concerne la relazione genitori-figli.

Mi si perdonerà se neppure provo in poche righe a passare in rassegna gli esempi concreti di cui mi è fatta richiesta. Dovrei pensarci bene, scrivere molto più a lungo per arrivare, probabilmente, a dire nulla che ciascun lettore non abbia pensato già da sé. Ciò che mi sembra primario e decisivo è, invece, assumere questo atteggiamento di fondo di cui ho parlato. Esso consente di vivere la quotidianità tutta come carità.

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