Le parole (politicamente corrette) che non ti ho chiesto
Tempi duri per la verità, all’epoca delle parole politicamente corrette. La nostra cultura ha uno strano rapporto con la realtà. Aspira a fare turpitudini, né più né meno che tutte le comunità umane che l’hanno preceduta. Ma, a differenza di queste ha una incredibile reticenza a chiamare le cose con il loro (vero nome). Esistono parole politicamente corrette che si sono imposte nell’uso o che vorrebbero imporsi nell’uso, con lo scopo principale di edulcorare, nascondere, ridipingere la realtà. E siccome le parole sono importanti, quelle che scegliamo determinano la nostra percezione della verità, al di là della sostanza delle cose.
Il vocabolario delle parole politicamente corrette
Sono anni che annoto mentalmente queste parole politicamente corrette. Parole che non abbiamo chiesto. Neologismi per definire cose che un nome ce lo avevano già prima, ce lo hanno sempre avuto. Adesso vi propongo un mini dizionario delle parole ingannevoli, che ho registrato fino ad ora.
Eutanasia: fra le più popolari parole politicamente corrette
Una delle prime parole politicamente corrette di cui vorrei parlare è: eutanasia. Neologismo greco, che vuol dire “buona morte”. Un neologismo un po’ arbitrario, perché io non immagino i greci ad augurarsi una buona morte. La morte, per i greci, era vagare fra le ombre, nel regno di Ade, negli inferi. Non era una condizione desiderabile: quando Omero parla della vita dopo la morte, descrive il regno dei morti buio, popolato da anime che si aggirano tristi fra i grigi campi e i pallidi asfodeli, rimpiangendo la vita e la luce del sole.
È con il cristianesimo che la vita dopo la morte può diventare un bel posto e quindi la morte terrena può diventare il buon prologo di qualcos’altro . E dunque, dire “eutanasia” significa un po’ imbrogliare, dare un’aura greca e solenne a una cosa che ci siamo inventati noi moderni. L’abbiamo chiamata eutanasia, perché era decisamente più accattivante di: “far morire un malato di fame e di sete”.
Eugenetica:
parola etimologicamente un po’ più onesta, ma parecchio edulcorata. Vuol dire letteralmente: di buona razza, di buona stirpe. Effettivamente l’eugenetica persegue la creazione di esemplari “buoni”. Il fatto è che, nella pratica, eugenetica vuol dire selezionare in vario modo gli esseri umani, per scegliere solo gli individui migliori quelli con le caratteristiche più desiderabili o più desiderate. Il resto si scarta, pazienza che sia un individuo, portatore della stessa dignità umana. Ciò che non è selezionato è uno scarto e questo vale per la selezione dei gameti, degli zigoti, degli embrioni e ultimamente anche dei neonati, visto che si vorrebbero eliminare quelli che non sono graditi.
Fecondazione eterologa:
anche in questo caso, scomodiamo il greco per dire una grossa bugia moderna. “eterologo” vuol dire, letteralmente “parola diversa”. Cosa che nulla ha a che fare con questa tecnica che consiste letteralmente nel comprare i gameti (l’ovulo o lo sperma) di un donatore, da una banca del seme o degli ovuli umani, per fecondarli e produrre un figlio, con cui non si ha una parentela genetica. Praticamente creare il figlio di altri, e comportarsi come fosse il proprio.
Il prodotto del concepimento:
Una volta si chiamava “feto”. Se proprio non lo si voleva chiamare bambino (non sia mai: perché mai umanizzare una creatura non ancora nata e quindi ancora parzialmente sottomessa all’arbitrio degli adulti?). “Feto” era già vagamente mistificatorio, ma almeno, libro di embriologia alla mano, rappresentava un concreto stadio di sviluppo di un essere umano. Sono tutti embriologi, quando si tratta di sminuire l’impatto -enorme- che ha la vita nascente su di noi. Ma comunque, “feto” poteva essere un compromesso razionale.
Il problema lo abbiamo avvertito quando “feto” è diventato “prodotto del concepimento”. Qua non ci siamo. Perché la parola “prodotto” non si concilia tanto con la dignità di un essere umano. E poi, sottolinea solo in modo deterministico che la conseguenza del concepimento sia un “prodotto”, nascondendo il fatto che il concepimento sia l’inizio di una nuova vita, che ha un codice genetico autonomo e una identità propria, che appartiene al genere umano.
Migliore interesse del malato:
Questo è un altro efficace eufemismo, dietro a cui nascondere una condanna a morte. L’idea implicita è che il miglior interesse del malato sia morire. Non vivere, godendo della necessaria assistenza e alleviato nelle sue sofferenze. No, morire, di solito fra atroci sofferenze. Lasciato senza cibo, senza acqua, senza supporti vitali. Questo è rappresentato come il suo interesse e non è contemplato che invece possa essere interessato a vivere, anche se malato terminale.
Maternità surrogata:
L’aggettivo “surrogato”, nella lingua italiana, vuol dire: Ciò che sostituisce un’altra cosa, spesso in modo incompleto o imperfetto o inadeguato. https://www.treccani.it/vocabolario/surrogato/
Quindi se diciamo “madre surrogata” o “maternità surrogata” stiamo dicendo che il ruolo di madre viene svolto da una creatura che è madre in modo imperfetto, inadeguato, rispetto a una madre vera. Questo perché, solo degradando il ruolo delle donne di cui si affitta l’utero, si riesce più facilmente a giustificare che se ne faccia un uso strumentale.
Salute riproduttiva:
Cosa vuol dire questo termine? Che puntiamo ad assicurarci che le donne stiano bene? Che la loro capacità riproduttiva sia tutelata, protetta da malattie e minacce esterne o interne? Assolutamente no. Assicurare la salute riproduttiva significa solo dare ampio spazio all’aborto. Aborto che con la riproduzione ha a che fare, ma solo in senso negativo. Perché l’aborto nega la capacità riproduttiva ed è un po’ difficile considerare l’aborto una misura salutistica. L’aborto non cura nessuna malattia, perché la vita non è una condizione patologica.
L’effetto più immediato del difendere l’aborto facendolo passare per “salute riproduttiva”, sta nel fatto che, come misura salutistica, coinvolge in modo attivo il sistema sanitario. Per esempio, nello stato americano del Colorado, essendo passato il concetto di aborto quale misura di “salute riproduttiva” (come fosse un pap test, un’analisi del sangue, una ecografia addominale), i datori di lavoro sono obbligati a fornire una copertura sanitaria assicurativa alle dipendenti che vi fanno ricorso, sottraendo queste risorse a prevenzione e cura di malattie che realmente minacciano la salute. https://gazette.com/denver-gazette/not-paying-for-abortion-just-sex-caldara/article_777b98d2-c4cf-11ed-ac2c-036eda02ceeb.html
GPA: quando le parole politicamente corrette diventano acronimi
acronimo di gestazione per altri. Quando l’ignoranza dilaga, al greco subentra l’acronimo, per creare parole politicamente corrette. Un acronimo è neutro, privo di emozionalità. E poi la gente scorda in fretta cosa significhi. Un acronimo non incide nelle nostre coscienze, non colpisce la nostra sensibilità.
È molto più rassicurante che dire: “prendere una donna in condizioni di fragilità economica e sfruttare, in cambio di soldi, la sua capacità riproduttiva, per mettere al mondo un bambino, che altrimenti non potrebbe nascere”. Perché c’è chi dice che sia un pregiudizio definire qualcosa “contro natura”. La natura non esiste. Salvo poi dovervi ricorrere per mettere al mondo i bambini. Perché l’ideologia genera mostri, ma non neonati.
PMA:
La procreazione medicalmente assistita è l’acronimo che indica la fecondazione artificiale. Termine ingannevole, perché la fecondazione artificiale non garantisce con certezza la procreazione. Degli embrioni generati con le tecniche di fecondazione artificiale, non è detto che alcuno sopravviva nell’utero materno e vada avanti fino alla nascita. La PMA è un tentativo umano e come tale è passibile di fallimento. Anche se sembra voler promettere risultati certi.
Bisogna diffidare delle parole politicamente corrette, perché nascondono altri scopi mistificatori.
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