Hanno ragione loro!

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Hanno ragione loro.

I primi furono Woody Allen e Mia Farrow.

Un matrimonio durato oltre vent’anni, con l’insolita circostanza di non vivere nella stessa casa. Ogni sera si salutavano, per ritirarsi nei loro rispettivi appartamenti, dai due lati opposti di Central park.

Pare che questo stile di vita abbia anche un nome. Anzi, addirittura un acronimo: LAT. Sta per: living apart toghether. Ovvero l’ossimoro: “vivere separati insieme”.

Più di recente, il presentatore italianissimo Paolo Bonolis e sua moglie hanno annunciato la decisione di vivere in case separate. La notizia è di circa un mese fa, ma insomma, sapete bene che io non sto sull’onda dell’attualità. Anzi. Io le notizie le prendo, le faccio invecchiare il giusto e, solo dopo, quando sono diventate vintage, decido di parlarne. A me piace così.

Allora, tutte queste coppie che seguono questo LAT, giurano e assicurano che non sia un’avvisaglia di separazione. Il loro matrimonio gode di eccellente salute, stanno insieme e si amano. Ma, apparentemente, non abbastanza da affrontare una convivenza. Considerano vivere separati il vero segreto per restare insieme tutta la vita. E un po’ hanno ragione. Davvero. Hanno ragione loro.

Prima di essere accusata di aver tradito la causa, è meglio che mi spieghi.

Lo sappiamo tutti che il grande scoglio, nel matrimonio, è la convivenza. Perché finché siamo fidanzati e ci vediamo due o tre sere a settimana (ma anche tutte le sere), dopo due ore di trucco e parrucco, col vestito buono e magari al ristorante, è chiaro che siamo di buonumore e vogliamo divertirci e andiamo d’accordo.

È più difficile quando ci si ritrova in casa a fine giornata, col trucco che cola e dobbiamo arrangiare una cena con quello che è rimasto nel frigo e quasi arriviamo a litigare per il controllo del divano, (scherzo, a casa mia il divano è proprietà di mio marito).

La convivenza è il vero banco di prova di ogni coppia. Significa mostrarsi maturi. Rispettare spazi e tempi altrui, cosa che è possibile solo appena smettiamo di comportarci come se al mondo ci fossimo solo noi. La vita a due ci educa. Ci protegge dal nostro egoismo. Soprattutto, riduce il rischio di non imparare mai a fare spazio, a fare un passo indietro, a cedere per l’altro. Tutti comportamenti essenziali per vivere con il prossimo e a maggior ragione con un marito (o una moglie).

È chiaro che una relazione cristallizzata alla fase del corteggiamento, quando si mostra solo quello che si vuole – di solito il meglio di quello che abbiamo da offrire – sia molto gratificante. La relazione così procede fluida e divertente, ma irrimediabilmente superficiale.

Quando arriva il problema, la difficoltà, la paura, invece di farci carico dell’altro, di metterci dalla sua parte, di offrirci di condividere il peso con lui, ce la squagliamo. Molto meglio immergersi nella lettura del nostro autore preferito o farci una maschera idratante al cetriolo, piuttosto che stare lì a incoraggiare il consorte o a spremersi le meningi alla ricerca di una soluzione.

Ascoltare le lamentele o le angosce dell’altro non è facile né divertente. Facciamo magari che ci sentiamo dopo, quando le paturnie ti sono passate? Chiamami tu, appena hai riparato la perdita in bagno, ti hanno consegnato il frigo nuovo, ti installano l’impianto di condizionamento. Guai se tocca fare qualcosa di noioso per l’altro. Specie se si tratta di impegnare il proprio tempo libero, quelle energie che volevamo utilizzare per modellare gli addominali. Non sia mai che ci tocchi rinunciare a quel giro per negozi o a quell’uscita con gli amici. Allora sì che le cose si complicano.

E al di là degli inconvenienti e delle emergenze, del logorio della vita quotidiana ne vogliamo parlare? Vogliamo parlare di un uomo che spreme il dentifricio da metà tubetto e non riabbassa mai la tavola e ci costringe all’estenuante visione delle partite di campionato, dei gran premi, dei tornei di tennis?

E che dire di una donna che occupa il bagno a ore, tira la coperta tutta dalla sua parte, porta sempre a casa amiche chiacchierone?

Chi ce la fa fare di prenderci anche questa parte qua, a tenerci la buccia, i noccioli, i torsoli quando quello che ci piace è solo il succo?  

Eppure, senza questa disponibilità ad esserci sempre, nella buona e nella cattiva sorte, possiamo davvero parlare di una unione consacrata? Non è piuttosto un ibrido mal riuscito, qualcosa che è più di un fidanzamento, ma meno di un vero matrimonio?

Se ragioniamo così, la nostra non somiglia affatto a quella alleanza matrimoniale che abbiamo stipulato, davanti a Dio e alla comunità dei credenti, quella di amarci e onorarci finché morte non ci separi.

L’essenza del matrimonio non è passare del tempo piacevolmente insieme, ma diventare una carne sola. Lo spirito dell’essere sposi è sporcarsi le mani, prendersi tutto, il bello, il brutto, l’esaltazione, la noia buona, le emozioni e l’abitudine.

Esserci quando serve, sostenere, proteggere, incoraggiare, dare all’altro una forza che forse non si possiede nemmeno per sé. Volerlo felice.

Si chiama sacrificio ed è indispensabile, per costruire una relazione con qualcuno. Non ci si può salutare sulla soglia dei rispettivi appartamenti e lasciare la vita fuori dalla porta. Non basta trovargli un acronimo moderno che lo faccia sembrare una cosa diversa. In realtà è solo la cara vecchia immaturità, l’incapacità di uscire dalla favola, per prendersi la vita vera.

E sì, hanno ragione loro, la convivenza è la parte più difficile. E anche la più bella. Alla faccia della LAT.

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