La voce della coscienza

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La coscienza ha voce? Di sicuro ci parla. E noi? L’ascoltiamo?

Da qualche tempo a questa parte, seguo la serie Netflix Partner Track. (la trovate qui: https://www.netflix.com/it/title/81140282)

Forse dire che la seguo è un po’ eccessivo. Diciamo piuttosto che, intanto che certo di mettere insieme l’articolo del giorno dopo per il blog, la tv mi fa compagnia. Di solito è notte fonda. La casa è silenziosa e anche freddina (o è un effetto della stanchezza). Per questo, ho libero accesso sia al divano che al telecomando.

Adesso vorrei che comparisse in sovra impressione l’avvertenza “non fatelo a casa”. Come capita per le pubblicità delle auto sportive, visto che non è un’abitudine consigliabile. Infatti, ho costantemente la cervicale e il mal di schiena. Perché scrivere sprofondata sul divano, con computer fra le gambe, non è una di quelle posizioni ergonomiche consigliate dall’associazione nazionale ortopedici.

La serie racconta le peripezie di tre giovani avvocati, in un prestigiosissimo e snobbissimo studio di New York. La protagonista principale è un’avvocatessa americana di origini coreane; Ingrid Yun. A fianco a lei l’amico gay e nero e l’amica bianca ed etero (mi hanno fatto notare che i telefilm americano ormai sono tutti così: c’è l’asiatico, il bianco, il nero e il gay, per esigenze di completa inclusività).

Anche se la cosa comincia vagamente a somigliare alla barzelletta piena di stereotipi della nostra infanzia (quella in cui c’è un italiano, un inglese, un francese e un tedesco) pare non si possa evitare.

Ingrid e i suoi amici vogliono diventare partner dello studio, ovvero avere una promozione, per la quale sono quasi disposti a vendersi l’anima al diavolo: lavorando fino a tarda notte, tessendo trame, bluffando e mettendo in pista tutto ciò che è lecito (e talvolta pure qualcosa che è un po’ al limite) per ottenere successo.

Gli episodi sono abbastanza avvincenti, anche se io non ho ancora deciso se Ingrid mi piace o no. Ingrid è un po’ troppo super perfettina. Magrissima, sempre ben truccata (anche nelle scene in cui sarebbe senza trucco), ben vestita e ben pettinata, bravissima, molto più perspicace degli altri, lavoratrice indefessa, pluripremiata e figlia di cui i genitori sono giustamente fieri. Questa somma di qualità non aiuta a renderla umana e simpatica. Ma non è tutto.

La cosa che più mi impensierisce è che lei ha sì una coscienza, ma si pente quasi sempre dopo aver fatto quella cosa lì, da cui comunque ha tratto vantaggio. La sua coscienza non la ferma mai un secondo prima che faccia qualcosa di cui poi si addolorerà. Questa voce della coscienza che parla sempre a scoppio ritardato sembra più un modo di salvarsi la faccia.

Mi sta molto più simpatica l’amica, Rachel. In primis perché più tormentata e meno carrierista. E poi perché, pur facendo un lavoro completamente diverso, il suo sogno è scrivere (chissà perché la capisco).

Al di là della mia illuminata opinione su questi due personaggi (e ce ne sarebbero molti altri) la cosa che colpisce, in questa serie, è che è la celebrazione dell’istinto, come principale criterio di giudizio e dell’impulsività come motore d’azione.

Per istinto, Ingrid lascia un fidanzato belloccio e apparentemente privo di difetti. Impulsivamente lascia una posizione a cui tiene, che, fino a poco prima, sembrava la sua principale ragione di vita. Altrettanto farà il suo collega, che riesce, in un sussulto di emotività, a rifiutare una offerta economica generosa e a tradire il compagno (e mo basta, sennò ve la spoilero tutta).

E anche se alla fine, le loro intuizioni e i loro moti d’animo li portano sempre e comunque a trionfare e a confermarsi i più belli, i più bravi, i più fighi, perché i buoni vincono sempre, (è una serie di Netflix, non la trasposizione cinematografica di Guerra e Pace), viene sempre da domandarsi se non sarebbe stato più giusto fermarsi, riflettere, mediare, trovare soluzioni meno precipitose e semplicistiche. Se non sarebbe più opportuno ascoltare la voce della coscienza.

Non è una serie destinata all’edificazione e all’elevazione spirituale (e nulla di quello di cui parlo in questo blog lo è), eppure qualche riflessione la suscita lo stesso.

È vero che l’istinto, l’emotività e persino gli impulsi fanno parte della nostra natura umana. Però, decidere di farsene guidare nelle decisioni importanti non è un bel messaggio. Spinti dall’istinto, rischiamo di voltare le spalle a un amore, a rifiutare una buona opportunità, a fare non ciò che è bene (o potrebbe esserlo). Piuttosto, facciamo ciò che ci piace, che ci va, che ci sentiamo inclinati a fare in quel momento.

Certo, talvolta ci va anche bene. Ma è un caso.

La coscienza sembra un concetto fuori moda, me ne rendo conto. C’è chi ritiene di poterne fare a meno, come i capi di mezza stagione. Non ce n’è più bisogno. Non esistono più le mezze stagioni. E’ scomparsa la differenza fra bene e male. Tutto ciò che ti fa stare bene è bene.

Eppure tutti abbiamo una coscienza, la questione è se vogliamo o no ascoltarla. La coscienza non ha molto a che fare con le emozioni e le pulsioni.  Il Catechismo della Chiesa cattolica dice che la coscienza morale è un giudizio della ragione. Caso per caso questo giudizio razionale ci fa riconoscere la qualità morale di un gesto concreto che ci apprestiamo a compiere. O che abbiamo già compiuto.

È una specie di spia rossa che si accende, quando stiamo per scegliere fra bene e male. La coscienza è la voce di Dio, e richiede di essere presenti a sé stessi, per ascoltarla. Tutto il contrario di quello che va in onda nella serie e – non per dare la croce addosso a Netflix_- un po’ ovunque nella vita di tutti i giorni.

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