Qualche giorno fa (forse pure qualche settimana fa), Vanity fair ha pubblicato una intervista a Daria Bignardi. Sì, lo so, arrivo sempre troppo lunga, rispetto ai tempi dell’informazione. Che vogliamo farci? Sono solo una grafomane dilettante. Mica faccio la giornalista dell’ANSA (al massimo dell’ansia, dicono le mie figlie).
Non riesco a cavalcare l’onda della notizia. Arrivo quando già si è infranta sul bagnasciuga. Sarà per quello che non mi vogliono neanche ad Ali, il giornalino parrocchiale. Anche se spero che prima o poi ci ripensino.
Solo con parecchio ritardo riesco a condividere le mie riflessioni sul contenuto dell’articolo. Meno male che non eravate in pensiero.
La giornalista Bignardi dice che non è il caso di stare troppo dietro ai figli. Non servirebbe seguirli nei compiti, darsi pena per preparare merende fatte in casa, subissarli di corsi di musica, sport, lingue.
Secondo lei, se i ragazzi vanno male a scuola, il più delle volte è perché non studiano abbastanza. Tuttavia, se non lo fanno ora, lo faranno più avanti. Appena avranno davvero trovato quello che gli piace. O magari non studieranno mai. E conclude, con una nonchalance che le invidio, che, anche se non studiano, non bisogna farne una tragedia: magari diventeranno milionari in criptovalute.
Così, la giornalista consegna al mondo una ricetta genitoriale zero sbatti, basata sul principio che, se lasci che i tuoi ragazzi si arrangino da soli, non sei un cattivo genitore.
Un articolo più divisivo di così non si può. Infatti ha creato istantaneamente due partiti, che da allora si fronteggiano senza risparmio di ostilità. (Quello delle opinioni è l’unico bipolarismo secco di cui siamo capaci in questo paese).
C’è chi applaude la Bignardi e la porta a esempio. C’è chi si sdegna e fa presente che i figli so’ pezze e core, pezzi di cuore, che per loro niente è mai troppo.
E quindi? Cosa deve fare una brava madre?
Sostenere e assistere i figli in ogni loro difficoltà, perché se al mondo non puoi contare manco su tua madre, come farai mai a fidarti del prossimo?
O fare la madre panchinara, che interviene proprio solo quando la creatura titolare non riesce più a correre dietro al pallone e per il resto del tempo pensa ai fatti suoi?
Un bel dilemma, che ha poco da invidiare a quello della famosa passeggiata di Amleto, col teschio in mano (Sì lo so, noi abbiamo accessori più carini, coordinati con l’outfit. Ecco perché Shakespeare è diventato famoso come commediografo, invece che come fashion guru).
Nella mia carriera di genitore, ho militato in entrambe le formazioni. Sono stata a volte mamma chioccia (e cozza) e in altri momenti ho dovuto mollare il colpo.
Una trasferta all’estero, un carico di lavoro più intenso del solito, un corso, sequestravano il mio tempo, la mia presenza, le mie energie, ed ecco che le ragazze, volenti o nolenti, dovevano cavarsela in autonomia (apparentemente senza danni).
Riemersa dai momenti di apnea, moltiplicavo gli sforzi, la sollecitudine, l’attenzione, anche qui senza apparenti danni per la prole.
Per me, scegliere cosa sia giusto, è difficilissimo.
Per questo non lo farò. Dopo averci riflettuto attentamente, per quarantatré secondi di seguito, sono arrivata alla conclusione che i due comportamenti siano giusti. Non per cerchiobottismo. Semplicemente credo che riflettano lo stesso sentimento.
Ha ragione chi pensa che i pargoli vadano aiutati sempre. E anche sia chi pensa che sia meglio lasciare loro più autonomia possibile. E anche i trentasei milioni di sfumature in mezzo. Hanno ragione tutti. Abbiamo ragione tutti. Perché ognuno di noi vuole solo fare il bene dei figli.
Per capire se lo facciamo davvero, bisognerebbe chiarirsi su cosa sia il vero bene.
Per esempio: ricordargli di mettere la maglia di lana è il loro bene, o un po’ di freddo tempra corpo e spirito?
Preparagli un pranzo al sacco genuino, invece degli snack fetenti delle macchinette è il loro bene, o è bene che si abituino a mangiare quello che c’è?
Correggergli gli strafalcioni di latino o gli errori di calcolo è il loro bene, o se non sbagliano da soli non imparano niente?
Ho una notizia choc. Davvero. Sedetevi un attimo. Tenetevi vicino qualcosa di forte. Tipo il rum che si beve nei peggiori bar di Caracas.
La notizia è questa: qualunque cosa prepariamo da mangiare nostri figli, che li coviamo o li lanciamo nel mondo, che li aiutiamo a ripassare per la verifica a scuola o no, non farà grande differenza per la loro felicità. Come diceva Sara, a Zero calcare: “nun je ne frega gnente a nessuno che tu prenda quattro oppure otto al compito di matematica, tolto a tu’ madre”, (appunto).
Perché va bene prendersi cura materialmente dei figli, ma la felicità è conseguenza soprattutto dell’essere amati. L’amore è il dono più prezioso. Questo vale quando trasmettiamo ai figli il nostro amore di genitori. È ancora più vero per l’amore di Dio.
Se educhiamo i figli nella fede, gli avremo già dato moltissimo: la consapevolezza di essere amati. Non solo: amati di un amore perfetto. Infinito. Incondizionato. Un amore eterno.
Gli avremo dato la possibilità di mettersi in salvo, che da sempre, è la preoccupazione materna per eccellenza e non ha a che fare, se non in minima parte, con i bisogni del corpo.
Tocca a noi assumerci il rischio educativo, il compito emozionante di dare una direzione spirituale ai figli. Di indicarla, percorrendola per primi e mostrandone la bellezza, la gioia, il fascino. Perché i figli sono così, seguono l’esempio più che le parole, ché, se bastassero le chiacchiere, sarei a posto.
Fatto questo, non farà gran differenza cosa prepariamo da mangiare o quanti corsi di sport gli facciamo frequentare. Avremo già svolto il nostro compito di genitori.
Quindi chiediamoci: abbiamo davvero fatto il compito? Il nostro compito?

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